L’irragionevole ragionevolezza sulla Torino-Lione
Commentando una dichiarazione del ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio, il manifesto di domenica titola con qualche ottimismo e buona evidenza: «Torino-Lione, il governo diventa Nì Tav».
È proprio così o si tratta dell’ennesima bufala di un governo che privilegia, ancora una volta, la narrazione sulla realtà? Purtroppo la risposta è univocamente la seconda.
Eppure anche le bufale, a volte, aprono nuovi spazi in cui è bene inserirsi. Partiamo, dunque, dai fatti.
Cosa ha detto il ministro? Ha detto – secondo le agenzie – che il progetto della tratta nazionale della Torino-Lione, che da Bussoleno scende verso il capoluogo e raggiunge Settimo, è stato «revisionato» rispetto a quello preliminare del 2011, prevedendo, almeno in una prima fase, l’utilizzo di una parte consistente dell’attuale linea storica (23 chilometri e mezzo tra Bussoleno e Buttigliera) e l’accantonamento, nella parte di nuova realizzazione, di alcuni tunnel originariamente previsti (in particolare la cosiddetta «gronda merci», cioè la galleria di venti chilometri da scavare tra Torino e Settimo).
Di qui un risparmio di oltre due miliardi, un minor impatto ambientale e una maggior «rapidità» di costruzione della tratta (destinata a essere completata entro il 2030). Naturalmente – si è affrettato a precisare il ministro – «non sono arretramenti ma adeguamenti, e sono un’intelligente rivisitazione dei progetti per fare le opere nei tempi giusti, con i costi minori e che siano davvero utili».
L’affermazione ministeriale, oltre che reticente in alcuni passaggi, è un capolavoro di narrazione tesa a trasformare il flop dell’originario progetto (e le conseguenti necessarie marce indietro) in una scelta strategica dei proponenti effettuata per responsabilità economica ed ecologica (magari accogliendo, magnanimamente, alcune proposte degli odiati No Tav).
In realtà, peraltro, non c’è nulla di nuovo, se non la traduzione in progetto (a quanto pare…) di una sorta di concordato fallimentare predisposto, non senza imbarazzo, cinque anni fa.
Meglio lasciar le parole a una fonte non sospetta (Il Sole24ore del 3 marzo 2012): «Il miglior alleato dei No Tav è la difficoltà dei governi nel reperire le risorse per la realizzazione dell’intera linea Torino-Lione. Per questo, per uscire da un’impasse che rischiava di chiudere definitivamente in un cassetto il progetto, Italia e Francia sono state costrette, la scorsa estate, a prendere in mano le forbici e a dar vita a un progetto in versione “ridotta”, rispetto a quello da 20 miliardi, ipotizzato dall’Osservatorio di Mario Virano alla fine di un lungo lavoro di concertazione durato 182 riunioni.
Il risultato è che, ad oggi, l’unica tratta garantita della Torino-Lione è la costruzione dei 57 chilometri del tunnel di base. Solo su questa prima porzione della Torino-Lione si è deciso di procedere con la progettazione definitiva.
Sarà invece rimandata a data da destinarsi la realizzazione della parte comune in territorio italiano. Ancora agli albori resta la tratta italiana della Torino-Lione, ferma alla conferenza di servizi. Si lavora a un progetto a basso impatto, che utilizzi la linea storica da Bussoleno alle porte di Torino: costo di 2,2 miliardi rispetto al progetto tutto in variante da 4,4 miliardi».
Nessuna scelta innovativa, dunque, ma la presa d’atto della necessità di una via di fuga per evitare il disastro.
Va bene – si potrebbe dire – ma evitiamo posizioni di principio e rallegriamoci del fatto che qualche frammento di un’opera inutile e dannosa è stato rinviato sine die o abbandonato, qualunque ne siano le motivazioni.
Giusto. Purché si prenda atto che ciò rivela una volta di più l’irrazionalità dell’opera complessiva e non lo si utilizzi per rafforzarla con una asserita sopravvenuta «ragionevolezza» del governo.
Se ragionevolezza e coerenza ci fossero, infatti, la «decisione» odierna porterebbe con sé l’abbandono dell’opera nella sua interezza.
Infatti, delle due l’una. O i lavori originariamente previsti sono semplicemente rinviati, e allora la narrazione odierna è pura ipocrisia (anche in termini di risparmio di risorse) e lascia intatte le controindicazioni di sempre. Oppure – com’è probabile, nonostante le rassicurazioni ministeriali che tutto sarà rivisto dopo il 2030 (sic!) – l’abbandono è definitivo e allora ci sarebbe un’ulteriore decisiva controindicazione persino ponendosi nell’ottica dei promotori.
La ragione di fondo a sostegno della nuova linea (esposta con sussiego dai soliti sedicenti «esperti») è, infatti, che la linea storica sarebbe inadeguata in radice, per ragioni tecniche e trasportistiche, alle nuove necessità. Non è così ma, se mai lo fosse, che senso avrebbe costruire un tunnel di 57 chilometri tra Italia e Francia quando, a monte e a valle (ché altrettanto si sta facendo in Francia) resta in gran parte la linea storica?
Non sarebbe come costruire un ponte con dieci corsie quando le strade che vi conducono ne hanno solo due? E quale senso strategico ha la decisione odierna? Nessuno, ovviamente.
A meno che tutto fosse, fin dall’inizio, una gigantesca truffa che, finalmente, la crisi economica sta cominciando a svelare. Ad essere seri, la «revisione» annunciata dal ministro dovrebbe portare, quantomeno, alla sospensione dei lavori e a una nuova discussione globale sull’opera, prima che vengano sprecati altri miliardi di euro (poco importa se italiani o europei). Non farlo realizza l’ennesimo inganno.
Nessun «Nì Tav» governativo all’orizzonte, dunque. Ma, certo, una «scelta» e una narrazione che dimostrano una debolezza di fondo su cui occorre inserirsi politicamente.
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