Le forze armate turche e il golpe

Le forze armate turche e il golpe

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Non ci sono tracce di combattimenti sui ponti, alla tv di Stato neppure sulle facciate dei giornali goffamente occupati per qualche ora. Ad Istanbul, gli unici danni lasciati dalla reazione della polizia contro i rivoltosi sono alla Kuleli dadîsi, l’Alta Scuola di Guerra delle Forze Armate turche. E’ un edificio bianco, sulla sponda asiatica del Bosforo, di un’eleganza asburgica, visibile da ogni angolo dello Stretto, almeno quanto lo è la sagoma della Moschea Blu sulla costa europea. La Kuleli dadîsi è il simbolo e l’orgoglio della presenza militare in città, contraltare in divisa al potere delle tonache. E’ lì che c’è stata la più seria, forse l’unica vera resistenza dei golpisti alla reazione governativa. Alla scuola si è combattuto e i fori dei proiettili hanno intaccato le mura candide di metà ‘800. Il preside è stato arrestato. Alcuni insegnanti, tutti ufficiali, uccisi. Secondo le accuse erano «gülenisti», seguaci dell’imam auto esiliato in Pennsylvania (Usa) Fethullah Gülen.

A differenza del primo e del secondo Corpo d’Armata, la scuola ha aderito al putsch. Ma è rimasto un caso isolato. Sui social network circolano i video dei carristi bloccati sui ponti dalla reazione popolare a bordo dei loro tank. Sono ragazzi di leva che, quando sono sfuggiti al linciaggio, raccontano di essere stati mandati in città «per un’esercitazione». I golpisti non avevano neppure truppe abbastanza formate e fedeli da controllare i punti nevralgici, e si sono scoperti obbligati a tentare il coup con dei soldati che credevano di fare un’esercitazione. Al primo ostacolo la farsa sarebbe stata svelata e così è stato, i militari di leva non hanno sparato.

Naunihal Singh, autore di un libro proprio sulla tecnica dei colpi di Stato militari (Seizing Power della John Hopkins University Press) spiega che il golpe turco è fallito soprattutto perché i «militari non sono riusciti a dare l’impressione di essere determinati e quindi chi non voleva trovarsi dalla parte sbagliata del fucile si è schierato contro di loro». Quando poi è arrivato il pronunciamento del comandante del primo Corpo d’Armata contro il golpe, ma senza combatterlo, le forze fedeli al presidente Erdogan hanno preso coraggio e la situazione sul campo si è ribaltata in poche ore. La spaccatura interna alle stesse Forze Armate è stata determinante almeno quanto la reazione del presidente e il coraggio dei civili appartenenti alle confraternite religiose promosse da Erdogan.

In Turchia è difficile trovare qualcuno che sorrida a tanta improvvisazione. Vedere l’esercito sconfitto è uno choc, fa saltare ogni sicurezza, come la neve in agosto. I militari hanno sempre rappresentato l’identità del Paese. Ancora prima della Turchia di Ataturk, il rispetto per i militari risale all’Impero Ottomano quando erano proprio le forze armate a unificare popoli, lingue, territori tanto diversi. In Occidente si tende a identificare l’esercito con il laicismo turco, ma l’Islam, anche con Ataturk, ha sempre fatto parte dell’identità del Paese. Il problema non è la religione, ma chi controlla l’enorme potere economico delle Forze Armate.

Esercito, Aviazione e Marina vivono, loro sì, in uno Stato parallelo. Hanno privilegi e vantaggi in ogni fase della carriera. Non si tratta solo di stipendi, ma di un welfare alternativo a quello di tutti gli altri semplici civili. Hanno condomini nelle zone più eleganti a prezzi irrisori. Controllano la holding Oyak, il terzo conglomerato turco. Hanno ospedali e centri di vacanza dove i figli del generale conoscono le figlie del colonnello così che il privilegio possa passare di generazione in generazione. Il pretesto della sicurezza è diventato un vantaggio di nascita a cui nessuno, islamico moderato, estremista o laico, vuole rinunciare.

Nel rozzo golpe di venerdì notte sono stati coinvolti pochi reparti e per molti è un sollievo. Vedere l’esercito sconfitto davvero sul campo sarebbe un’umiliazione nazionale a dispetto di qualunque fede democratica. Ora sta al presidente Erdogan capire sino a che punto può affondare la lama per estirpare il “cancro” senza stuzzicare una reazione di chi venerdì notte è solo restato a guardare .

Andrea Nicastro

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