La lingua mi dice chi sono i personaggi, le loro storie, la loro voce

by Orsola Casagrande y J.M. Arrugaeta, Global Rights 2/2016 | 29 Luglio 2016 10:10

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Gavin Corbett è nato nella Contea Galway, nell’ovest d’Irlanda, ma la sua famiglia si trasferì nuovamente a Dublino, città dalla quale provenivano, quando Gavin era piccolo. Attualmente vive nel quartiere di Phibsnorough, nel centro della capitale irlandese.

Per cominciare, raccontaci come hai cominciato a scrivere e soprattutto quando hai deciso di essere “solo” uno scrittore?

Ho cominciato a scrivere a scuola, perché bisognava farlo. Ma ho scoperto molto presto che scrivere era qualcosa che amavo fare. Molto spesso gli insegnanti ci davano da scrivere qualche tema come punizione, e più complicato o più astratto era l’argomento su cui bisognava scrivere, più dura era la punizione o almeno questo pensavano. “Scrivi cinque pagine su una pallina da ping pong”, quel genere di cose. Ma scrivere cinque o dieci o venti pagine su una pallina da ping pong era per me una grande idea di divertimento.

Ho sempre voluto essere uno scrittore a tempo pieno però ero abbastanza realista per sapere che questo avrebbe significato dedicare la maggior parte del tempo in cui non lavoravo, i giorni in cui non ero pagato, a scrivere il più possibile e che guadagnare abbastanza soldi per lavorare solamente come scrittore non era plausibile. Tuttavia per poter lavorare con le parole durante il giorno, sono diventato giornalista. Ho lavorato in vari giornali per anni – da quando avevo vent’anni e fino ai trenta. Ho scritto un romanzo poco più che ventenne e l’ho pubblicato quando ne avevo 26, però sono diventato uno scrittore pagato a tempo pieno soltanto nell’inverno del 2011, dopo aver firmato un contratto per il secondo e terzo romanzo. In ogni caso, anche adesso i soldi bastano fino a un certo punto: per guadagnare qualche soldo extra, insegno.

 

Perché hai scelto di dar voce alla comunità Traveller? Qualche connessione personale?

In realtà non ho mai pensato di dar voce o di rappresentare la comunità Traveller. Quella comunità ha eloquenti difensori e chi sono io per parlarne? Il mio romanzo This is the Way (Questa è la via) è partito dall’idea di scrivere un libro piccolo e personale. Volevo semplicemente scrivere di un outsider, un marginale, della disconnessione. Non avevo idea, all’inizio, di chi sarebbe stato questo outsider. Ho cominciato a giocare con le voci, per scoprire questa persona. Abbastanza rapidamente mi sono reso conto che la voce che stavo sviluppando era quella di un Traveller irlandese. Era ovvio – il suono che usciva dalla pagina era inequivocabilmente chiaro. L’avevo in mano. Sapevo che il mio outsider sarebbe stato un Traveller – tagliato fuori dall’Irlanda mainstream, tagliato fuori dalla vita della città in cui si trova, e tagliato fuori anche dalla sua cultura. Naturalmente, con quella certezza è arrivata anche la consapevolezza che avrei avuto una certa responsabilità perché non ho vincoli familiari con la comunità Traveller. L’ultima cosa che volevo fare era denigrare o mal rappresentare quella comunità.

 

Che ricerca hai fatto per il tuo libro ?

Non mi sono complicato la vita con troppa ricerca. Se lo avessi fatto, il libro sarebbe stato molto diverso e probabilmente sarebbe stato terribile. Mi sarei sentito obbligato ad includere tutto quello che avevo letto. Ma l’attenzione in This Is the Way si concentra soprattutto sull’esistenza di una persona e su una voce particolare – non sulla voce dei Traveller in generale, ma sulla voce di questo giovane, il mio protagonista, Anthony Sonaghan. Mi sono fidato di quella voce, e di dove mi conduceva. Avevo una certa familiarità comunque con le voci dei Traveller – i Travellers erano soliti venire alla nostra porta e mia madre era molto amabile con loro. Detto questo, naturalmente ci sono parti nel libro nelle quali ho dovuto essere rigoroso in quanto ai fatti. Ho letto parecchi studi sociologici e molto materiale pubblicato da Pavee Point, il gruppo di difesa dei Traveller.

 

Come viene percepita la comunità Traveller in Irlanda? Ricordo che a Belfast, negli anni ’90, soffriva molti abusi, tranne a West Belfast, il quartiere repubblicano, dove i Traveller vivevano nelle loro roulottes.

I Travellers sono visti molto di traverso e con sospetto dalla popolazione irlandese in generale. Questo dipende dal corto viaggio che abbiamo fatto come popolo. Siamo una nazione ossessionata dalla proprietà. In pochi decenni alla fine del XIX secolo e l’inizio del XX siamo passati dall’essere un paese di contadini affittuari e inquilini di condomino a un paese di proprietari di casa. La condizione di affittuario era identificata con quello che eravamo come sudditi britannici; la condizione di proprietario di casa era invece un segno di indipendenza maturità, irlandesità. Parallelamente a questo rovesciamento sociale, lo status dei Travellers è cambiato. Sono passati dall’essere visti come spiriti liberi, poeti erranti, romantici custodi di un’antica tradizione celtica, a essere considerati come tipi loschi appostati dietro il muro, una banda, una classe di mendicanti e ladri. Nessuna delle due percezioni, naturalmente, era o è accurata. Se allora i Travellers erano idealizzati e guardati con superiorità adesso sono demonizzati, offesi e esclusi.

 

Viviamo in un mondo dove l’idea dell’ “altro”, il diverso da noi è usata per creare la paura dell’altro. Tu hai scelto, in qualche modo, con Anthony, di essere “l’altro”…

Gli irlandesi sono ossessionati dai paragoni. Credo sia vero che ogni popolo ha bisogno di un altro popolo di “riferimento” per mantenere la sua identità a fuoco o avere un qualche sollievo. Questo è vero soprattutto con le nuove nazioni, dove rapidamente si deve decidere un set di criteri, quasi per forza, rispetto a chi appartiene a questo luogo. Un buon modo di rispondere alla domanda “che cos’è l’identità irlandese?” è chiedere “che cosa non è l’identità inglese?” Passione, uno stato della mente e un soggetto tranquillo e calmo, lirismo e genio rapido – queste sono tutte cose associate con l’irlandesità e non con l’inglesità, ma gli irlandesi hanno molto più in comune con gli inglesi di quanto siano contenti di ammettere. E’ stato addirittura provato da genetisti, per esempio, che gli irlandesi e gli inglesi hanno virtualmente la stessa struttura genetica!

Allo stesso modo, la comunità Traveller serve un proposito utile nella società irlandese, come un segno di quello che l’identità moderna irlandese non è, di quella condizione nella quale non dobbiamo mai più permetterci di cadere.

Quando ho inventato il personaggio di Anthony, sapevo che mi avrebbe offerto una prospettiva interessante non solo della società mainstream irlandese, ma anche della stessa cultura Traveller. Volevo che esaminasse come entra e si sente in entrambe. Volevo che si chiedesse “sono un Traveller, e la mia gente mi dice che devo essere abile con le parole, perché allora sono incapace di raccontare la mia storia? Perché la storia a proposito di dove vengo è un mistero?”

 

Che importanza ha il linguaggio, dunque, nel tuo lavoro?

Il linguaggio è la chiave per me. Tutto comincia con il linguaggio – il linguaggio mi dice chi sono i personaggi, e i personaggi allora mi raccontano quali sono le loro storie. Un personaggio come Anthony è stato per me un regalo – una persona con una voce distinta di per sé ma anche qualcuno la cui storia aveva a che fare con il collocare la sua identità all’interno della narrativa! Questa presunzione mi ha permesso di giocare veramente con il linguaggio su diversi piani. Anche il mio ultimo libro, Green Glowing Skull, è tutto sul linguaggio. E’ sul turbinio delle parole che riguardano noi tutti, oggi. Mi piace sporcarmi le mani con il linguaggio. Dico sempre che sono uno scrittore che, in primo luogo, fa cose anziché dire cose.

 

E la trama? Ho letto da qualche parte che consideri la trama una sorta di distrazione.

Amo leggere libri con una trama intrigante, ma ogni volta che scrivo seguendo l’idea di una trama non suona mai naturale. Devo sempre, in qualche modo, fare sì che la cosa che sto scrivendo suggerisca o addirittura annunci che è una “cosa”, una creazione, per farla “suonare” onesta. Le trame sono un po’ banali per me. Sono un vascello per buon materiale (il linguaggio, i personaggi), ma perché abbiamo bisogno di questo vascello per cominciare? Preferisco trovare una forma che sia differente da una trama. Voglio sempre che quello che scrivo abbia una bella forma, buona solidità, ma non mi piace usare trame, anche se, nonostante la mia volontà, i miei libri hanno un qualche tipo di trama. Mi piace che quello che scrivo arrivi a un punto dove posso trovare un modo di presentare una storia nel modo in cui una storia si presenta a noi stessi quando non stiamo coscientemente cercandola: in altre parole, quando facciamo connessioni con cose che vediamo nel nostro ambiente fisico o online. Penso che Arcades Project di Walter Benjamin vada in quella direzione. Mi piacerebbe un giorno scrivere qualcosa di simile, ma con un materiale che colleghi i vari spezzoni.

 

E i personaggi? Come li crei? O sono loro che ti “trovano”?

I personaggi generalmente iniziano come un vago schizzo. Quindi scrivo qualche riga e trovo una voce, e finisco con lo scrivere pagine e pagine con quella voce, ed è attraverso questo processo che imparo molto dei personaggi e finisco con il riscrivere completamente il primo schizzo. Credo enormemente nello scoprire personaggi e temi attraverso la stessa scrittura. E’ solo quando l’immaginazione raggiunge quello stato furioso di creazione che funziona bene.

 

Il tuo nuovo romanzo affronta temi come l’esilio, o almeno la separazione, la distanza dalla famiglia, amici, la casa, l’identità. In parte l’hai già spiegato, ma che cosa significa identità per te? Ed esilio? Allo stesso tempo affronti temi come la perdita e la storia. Perché sono temi importanti per te?

Il tema centrale dei miei tre romanzi è l’identità, anche se la cosa non è stata davvero intenzionale, o dovrei forse dire che non sono stato davvero consapevole che quello era il tema. Immagino di non essere unico in questo senso, molti romanzi, se non la maggior parte, sono costruiti attorno alla domanda centrale “Chi sono io?” Non è forse questo il viaggio di ogni protagonista? Il viaggio di un personaggio centrale attraverso un romanzo è un viaggio di auto-scoperta e cambiamento.

Gli scrittori irlandesi, e gli irlandesi, sono particolarmente preoccupati dell’identità, come accennavo prima, e naturalmente identità ed esilio sono strettamente collegati nel contesto irlandese. La gente sta lasciando a milioni l’isola d’Irlanda da due secoli, o più, ma molta gente è anche venuta a stabilirsi in Irlanda da molto prima, e questo è quello che rende la questione dell’identità irlandese così intricata e interessante.

Se mi chiedessi quali sono i fattori chiave nel modellare l’identità irlandese, ti direi che il primo fattore è la perdita.

L’Irlanda è unica nel senso che è passata in un breve periodo di tempo dall’essere il paese d’Europa più densamente popolato (otto milioni nel 1840) ad essere uno dei meno densamente popolati (meno di tre milioni un secolo più tardi). La maggior parte della gente che è morta o ha lasciato questo paese nella metà del secolo XIX è stata concentrata in una sorta di megacittà lineare lungo la costa occidentale. Quel luogo è abitato dai fantasmi dei resti materiali di quell’epoca, ma in fondo la gran parte d’Irlanda lo è. Se la Grande Carestia/Genocidio non fosse accaduta, la popolazione d’Irlanda oggi sarebbe attorno ai 40 milioni. Al contrario, l’Irlanda è un luogo arido, aperto, paludoso e ventoso. E’ soggetto a una strana luce filtrata dall’acqua dell’Atlantico che talvolta può essere confusa con fantasmi.

L’altro fattore chiave nel forgiare l’identità irlandese è la fantasia sociale – una sorta di idea morbosa di quello che compone il personaggio irlandese nato attorno ai tempi del nazionalismo militante, emerso alla fine del XVII secolo e aggiornato nel XX secolo da un gruppo di rivoluzionari conservatori e preti. I discendenti degli irlandesi in America si specializzano in una versione di quell’idea di irlandesità ed è uno dei temi principali del mio ultimo romanzo, Green Glowing Skull. Devo dire, anche, che è un’idea per la quale provo un certo affetto.

 

Come scrivi? Con musica, nella tua stanza…

Scrivo ovunque e in qualsiasi momento. Non seguo una routine anche se cerco di costringermi a scrivere ogni giorno e spero di entrare in quello stato della mente dove le idee fluiscono liberamente. Ma sono molto pigro e caotico e mi lascio felicemente distrarre da internet, da un gatto che prende il sole, da qualunque cosa. Quando scrivo ascolto musica, generalmente musica strumentale: le parole degli altri tendono a bloccare il mio cervello. Sono attualmente writer in residence a Trinity College, Dublino, e questo è ottimo per la mia scrittura dato che ho delle stanze mie, dove mi posso chiudere dentro e scrivere. Ti confesso che il mio ufficio è la casa in cui è nato Oscar Wilde, anzi, è l’attico di Oscar Wilde! Alla notte può essere un po’ terrorizzante.

 

Come consideri la scena letteraria irlandese attuale?

La scena letteraria irlandese sta vivendo una sorta di “auge” attualmente. C’è un gruppo di scrittori  che negli ultimi anni sta ricevendo grandi onori in giro per il mondo.

Tra questi Lisa McInerney, Colin Barrett, Sara Baume, Louise O’Neill, Paul Murray, Danielle McLaughlin, Gavin McCrea, Rob Doyle, Kevin Barry e altri. Conosco la maggior parte di loro personalmente. Ci ritroviamo a eventi e festival e quelli che viviamo a Dublino, beviamo negli stessi due pub e caffè! Il talento di questa gente è incredibile e si meritano il successo che stanno ottenendo. Io sono praticamente uno sconosciuto rispetto a loro, anche in Irlanda, e sono sicuro che molti che mi vedono con loro si chiederanno “chi diavolo è quello stolto, quell’opportunista”, ma questi scrittori sono gente fantastica e gran compagnia, e sono contento di averli come amici.

 

Ritieni che ci sia una politica statale di sostegno alla cultura?

Lo stato irlandese fa del suo meglio per appoggiare la cultura, ma i vari governi vorrebbero piuttosto che la cultura e il sostegno statale sparissero, perché non lo considerano affatto importante. Dopo le ultime elezioni politiche non è rimasto nemmeno un Dipartimento Cultura. E’ così stupido. Questi politici insensati e ignoranti non capiscono cosa sia la cultura: penso che la loro idea sia di “arte e artigianato”, una parte minore del settore manifatturiero o dell’industria del turismo. Non vedono il ruolo della cultura nella sfera pubblica, ma in fondo non hanno nessuna attenzione per la sfera pubblica, considerando quanto male e orribilmente sono pianificate le nostre città. Teatri, gallerie e biblioteche, artigiani che contribuiscono alle bellezza della sfera pubblica, come gli artisti delle insegne e del vetro, dovrebbero avere priorità nel budget. I governi non riescono a cogliere il bene che l’arte fa al senso di auto-stima della nazione, e quanto danneggiante sia la demonizzazione dell’arte per l’immagine della nazione di fronte al mondo. Io vado in Francia rintracciando la mistica della Francia che trovo in alcuni volti o in certe sfumature di blu. Allo stesso modo la Turchia con i film di Nuri Bilge Ceylon o la Spagna con i libri di Marias and Vila-Matas.

 

I Travellers irlandesi (in irlandese an lucht siúil, gente che cammina, in inglese Irish travellers o tinkers) sono un popolo nomade di origine irlandese, che attualmente vive principalmente in Irlanda, Gran Bretagna e negli Stati Uniti. Non c’è una teoria definitiva sulle origini dei Travellers, quello che sì è certo è che costituiscono parte della società irlandese da secoli.

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