Jihad, miseria e nobiltà

by Tommaso Di Francesco, il manifesto | 5 Luglio 2016 17:36

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Dopo Dhaka e Baghdad. Non regge nemmeno il confronto con le organizzazione dell’islamismo politico, come Hamas, i Fratelli musulmani e Hezbollah, che l’Occidente ha messo irresponsabilmente nello stesso piatto del terrorismo jihadista che, non a caso, considera queste forze nemiche giurate sul campo. La loro matrice infatti, pur sempre islamista, punta a definire un campo dell’intervento politico, soprattutto perché sono forze nate dalla sconfitta storica, anche militare, dei rispettivi nazionalismi e regimi: in Palestina, in Egitto e in Libano. È tempo d’interrogarsi se l’avere isolato, in modo ormai irreparabile, come il male assoluto queste organizzazioni – fino a favorire la loro trasformazione da moderate a ultra-radicali – alla fine non abbia proprio favorito al-Qaeda e Isis

Ci deve essere in giro una grande, monumentale coda di paglia se, per tirare un sospiro di sollievo sulla pericolosità, anche in Asia, dello jihadismo che ha colpito sanguinosamente in Bangladesh, si scopre che i giovani del commando terrorista appartenevano a famiglie dell’alta borghesia. Dov’è infatti la novità? Forse che Osama bin Laden, il leader di Al Qaeda, era un beduino del deserto, un edile tunisino o uno scaricatore di porto di Istanbul? No, apparteneva alla leadership dei potenti della terra, faceva parte di una famiglia legata sia alla petromonarchia saudita sia alle imprese compradore statunitensi, a cominciare dalla dinastia dei Bush; e così vicino ai destini dell’Occidente da essere coinvolto in armi prima in Afghanistan, ancora durante la Guerra fredda con i mujaheddin contro la presenza dell’Urss, poi in Bosnia grazie ad una anomala triangolazione di interessi tra sauditi, iraniani e la presidenza Usa di Bill Clinton. Tant’è.

Ora la «scoperta» di questo nuova dinamica tra una presunta miseria e una emergente nobiltà, vale a dire il terrorismo jihadista con piscina, sembra mettere gli animi in pace. Tacitando dubbi ed evidenze drammatiche sia sulla natura del blitz «liberatorio» dell’esercito a Dhaka, sia sulla routine sanguinosa dell’ultima stragi jihadiste, come in Iraq.

Così Matteo Renzi, in una Italia a lutto che sta per ricevere le salme delle nostre vittime domani, si permette di non rispondere alle domande sul blitz dichiarando che ormai sarebbe «troppo tardi» porsi interrogativi sulla modalità dell’intervento militare per «liberare gli ostaggi». Sbaglia naturalmente. Perché una tragedia simile può ripetersi e del resto è già accaduto; basta ricordare gli avvenimenti di Sabratha di pochi mesi fa per i nostri due connazionali, lavoratori all’estero, rapiti in Libia.

Chi ha visto il video girato a Dhaka da una casa vicina da un cittadino sudcoreano, sa che il blitz dell’esercito è stato devastante, con i carri armati usati come ariete e con armi da guerra che non risparmiano nessuno. Del resto è quello che è accaduto per gli ostaggi in precedenti interventi «liberatori» da parte dei militari statunitensi in Afghanistan. Ma, si sa, quelle sono «inevitabili vittime», effetti collaterali, come i civili uccisi dai droni ci fa ancora sapere Barack Obama.

Non regge nemmeno il confronto con le organizzazione dell’islamismo politico, come Hamas, i Fratelli musulmani e Hezbollah, che l’Occidente ha messo irresponsabilmente nello stesso piatto del terrorismo jihadista che, non a caso, considera queste forze nemiche giurate sul campo. La loro matrice infatti, pur sempre islamista, punta a definire un campo dell’intervento politico, soprattutto perché sono forze nate dalla sconfitta storica, anche militare, dei rispettivi nazionalismi e regimi: in Palestina, in Egitto e in Libano. È tempo d’interrogarsi se l’avere isolato, in modo ormai irreparabile, come il male assoluto queste organizzazioni – fino a favorire la loro trasformazione da moderate a ultra-radicali – alla fine non abbia proprio favorito al-Qaeda e Isis.

Altre due questioni vanno sollevate sul Bangladesk. È tragica la sconfessione del governo di Dhaka che nega anche adesso l’esistenza del terrorismo jihadista più o meno legato all’Isis o ad Al Qaeda, ma ora è costretto a riconoscere che esistono gruppi autoctoni per i quali, sappiamo, è in corso un’iniziativa spartitoria tra Stato islamico e la leadership qaedista di Al Zawayri. Quanto all’appartenenza dei terroristi di Dhaka all’alta borghesia – il piatto forte che giustifica la versione del governo bangladeshi – e non certo alle classi umili o alla classe operaia, emerge dunque una gioventù dorata e privilegiata che vive nel lusso, all’ombra di un mare di disperazione, miseria e baraccopoli, dedita solo all’esperienza digitale; intenta «alla moda» della militanza armata e suicida nella jihad.

Dal lusso sfrenato al suicidio assistito dalla predicazione terrorista. Chiamiamola «scoperta», ma è la conferma che la predicazione del radicalismo islamista armato, prima di Al Qaeda ora dello Stato islamico, oltreché per via del nuovo simulacro del web, è integralista-religiosa, usa il sociale come espediente, affermando la sua proposta salvifica come trascendente oltre il profano e il materiale: una dottrina che va perseguita fino alla morte, con un messaggio di «purezza» e combattimento non per una società superiore di liberi ed eguali ma per la santità della Jihad e la conferma del verbo (maleinterpretato) del Profeta.

Altro che paragoni con il cosiddetto terzomondismo.

Invece chi in Bangladesh – che con gran parte dell’Asia è la fabbrica del mondo (nella fattispecie dell’Alta Moda del mondo globalizzato) – si batte contro condizioni di sfruttamento del lavoro e condizioni di vita disumane, come i sindacati con tante donne protagoniste, viene represso duramente e spesso non può nemmeno costituirsi in organizzazione. Mentre gli islamisti terroristi, nonostante le tante uccisioni di blogger, laici, intellettuali e attivisti dei diritti umani, nemmeno vengono sospettati. Salvo arrestare 11mila persone all’ultimo momento, com’è accaduto a Dhaka prima della strage, con una retata così indiscriminata da colpire solo l’opposizione.

Un’ultima considerazione. Mentre scriviamo ammontano a più di 170 in un solo giorno le vittime della nuova, ennesima strage di sciiti a Baghdad. Com’è possibile continuare a raccontare che «l’Isis sta perdendo» solo perché viene sconfitto a Fallujah e in vaste aree siriane, quando sappiamo che la sua natura è quella di uno «stato predicatorio» saprofita di ogni guerra, mentre si rilancia estendendo la sua capacità di colpire con il terrore inserendosi nelle voragini e nei disastri, politici, sociali e religiosi provocati dalle guerre occidentali in Iraq, Siria e LIbia?

Il fatto è che alla miseria dello jihadismo e all’eclissi dei valori occidentali di libertà, fraternità ed eguaglianza compromessi nei valori di mercato e nella pratica della «maledetta guerra», la risposta è – dovrebbe essere – la nobiltà della lotta di classe. Ma questo è un altro discorso.

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