Il Sultano ferito

by Tommaso Di Francesco, il manifesto | 17 Luglio 2016 12:32

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Il bagno di sangue c’è stato, le vittime di questo accenno di guerra civile, che se fosse esplosa avrebbe gettato due continenti nel caos, sono più di 300. Ma alla fine ha vinto il cellulare da cui ha parlato Erdogan, hanno vinto le tv private stranamente non oscurate dai golpisti, ha vinto la diretta tv, hanno vinto i muezzin che hanno chiamato in piazza la gente e non alla preghiera, ha vinto l’Akp che ha mobilitato probabilmente centinaia di migliaia se non qualche milione di turchi. Alla fine ha vinto il Sultano Erdogan che primeggia in ogni competizione da quattordici anni.

Ma stavolta vale la pena sottolinearlo, esce a dir poco ridimensionato.
Non parliamo della sua popolarità all’interno, quella appare indistruttibile. Il popolo turco per lui si è sdraiato davanti ai carri armati, li ha fermati senza armi in mano, e i suoi pretoriani della polizia lo hanno difeso mitra in pugno da un tentativo di golpe orchestrato, come si è capito quasi subito, solo da un settore dell’esercito e malamente. Essendo probabilmente convinti i golpisti di un seguito popolare all’azione di forza che invece si è rivelato illusorio.

Eppure a guardar bene dietro le immagini del trionfo che si rincorrono ovunque, emerge il ridimensionamento del presidente turco. Erdogan grida vendetta e la farà. Guai ai vinti in Turchia. Ma ormai è un Sultano ferito. Quel che abbiamo visto e sentito ne è la dimostrazione più lampante e feroce. Per buone tre ore – dalla fine della serata di venerdì alla notte – i suoi amici ed alleati internazionali, Usa e Paesi europei sono stati a guardare.

Sono le leadership occidentali che hanno delegato finora alla leadership turca il lavoro sporco del primo sostegno alla ribellione, anche jihadista, contro la Siria di Assad, restituendo in cambio il tacito accordo sul massacro interno dei kurdi. Aspettavano, hanno pensato che fosse l’occasione di gettare via il limone spremuto.

Per tre ore dagli Stati uniti e dai Pesi europei, dagli organismi dell’Ue, ma soprattutto dalla Nato – della quale la Turchia è fondamentale baluardo a sud -, hanno atteso l’evoluzione degli eventi: praticamente partecipi della riuscita del colpo di stato. Senza condanna alcuna come ci si aspetta per una prova di forza militare contro un governo di un Paese o regime alleato. E trincerati dietro l’ufficialità di dichiarazioni, escludendo appunto la condanna dei golpisti, si limitavano alla presa d’atto. Come ha fatto John Kerry che si è augurato stabilità e pace, pieno di speranza per la «continuità»; pressapoco come Putin – che nemico resta, nonostante il recente riallacciamento di rapporti – si è dichiarato contro «il bagno di sangue». Solo più tardi, quando è apparso evidente il fallimento dell’avventura militare, hanno cominciato a fioccare sdegno e solidarietà. La solitudine di Erdogan era già un fatto compiuto.

Quanto questa nuova debolezza e isolamento di Erdogan sia pesante è diventato evidente nell’impossibilità da parte del Sultano di chiamare in causa e accusare subito i responsabili del tentato golpe, cioè proprio i Paesi Occidentali, gli Stati uniti in primis e la Nato. Che è stata spettatrice-attrice di un conflitto militare interno all’Alleanza, con vittime militari in un campo e nell’altro. Soprattutto è da ricordare infatti che i colonnelli e i generali che hanno provato a destituire il presidente turco sono uomini della Nato, schierati militarmente su tre fronti delicati di conflitto: con la Siria, a Dyarbakir nel conflitto kurdo e sui confini per la vicenda migranti. Quei carri armati Leopard che hanno preso posizione sulle strade di Istanbul e Ankara sono gli stessi di mille esercitazioni atlantiche congiunte, e non si mettono in moto senza che lo stato maggiore della Nato non lo sappia.

E del resto, come giudicare l’atteggiamento della Germania, se sarà confermato il diniego all’atterraggio dell’aereo di Erdogan in fuga? E come comprendere la richiesta di asilo politico di otto colonnelli golpisti alla Grecia, Paese Nato e storico avversario nel sud-est europeo? Parlando alla folla Erdogan è stato costretto a limitarsi ad accusare Fethullah Gülen, il suo ex amico diventato acerrimo nemico e in esilio negli Stati uniti. E diventato il capro espiatorio perfetto di ogni malefatta. Invece di accusare direttamente l’amministrazione Obama, ha ripiegato su «quelli laggiù in Pennsylvania», dove Gülen è in esilio e da dove gli Usa si rifiutano da tre anni di estradarlo, come il Sultano ha più volte richiesto. La comunità internazionale insomma non tira un sospiro di sollievo. Anzi, è il contrario.

Sbarazzarsi del testimone scomodo Erdogan poteva essere un obiettivo, stavolta non raggiunto. Ma siamo solo all’inizio della nuova crisi turca, dove l’esercito è uno stato nello stato, pieno di privilegi e sottopoteri e fin qui complice di ogni infamia del regime, a cominciare dai traffici di petrolio e armi da e con la Siria con lo Stato islamico. A cominciare dal trattamento riservato alla disperazione dei profughi siriani, ormai appaltati dall’Unione europea al «posto sicuro» che è lo Stato turco.

È una crisi, che coinvolge Europa e Medio Oriente, al crocevia della fase proclamata conclusiva della guerra contro l’Isis, e che non a caso si gioca tutta sul destino delle solo annunciate aperture, ma di svolta, avviate dal neopremier Yldirim, che, probabilmente per impedire il crollo della credibilità dell’intera leadership di Erdogan, riallaccia il rapporto storico con Israele, dialoga col nemico Putin a cui ha abbattuto un aereo, e addirittura promette possibili nuove «relazioni» con la stessa Siria che ha provato a destabilizzare con una guerra crudele per quattro anni.

Avrà pure vinto, Erdogan, ma per restare al potere deve far finta di avere amici che non può accusare apertamente di averlo pugnalato alle spalle e, allontanando la prospettiva strategica di egemonia ottomana nella regione dopo aver perso la prospettiva europea, è costretto adesso ad abbracciare pericolosamente e umilmente tutti i suoi nemici.

P.s. Anche l’Italia è stata guardare, solo ieri mattina Gentiloni si è sbracciato in apprezzamenti al governo di Ankara. Renzi però a superato se stesso: ha dichiarato che «ha vinto la stabilità». Vuoi vedere che pensava al referendum di ottobre?

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