Dopo Dallas, l’America di Obama alla prova
Nell’America post-Dallas proseguono le manifestazioni contro gli omicidi di polizia. Anche ieri #Blacklivesmatter ha organizzato presidi, assemblee e cortei in numerose città perlopiù pacifici anche se ci sono stati una settantina di arresti e a Phoenix la polizia ha usato i lacrimogeni per disperdere una manifestazione per i diritti civili dopo che il capo della polizia ha «determinato che aveva esaurito la propria utilità».
Pur nella condanna unanime della strage texana, il movimento antirazzista è deciso a mantenere alta la pressione politica sulla questione della strage di neri per mano della polizia, respingendo gli allarmismi sulla guerra razziale agitati da molti.
La realtà è che non è necessaria la guerra di razza per descrivere il conflitto a «bassa intensità» dei rapporti razziali in America.
Lo definisce benissimo lo stillicidio di morti per mano delle forze dell’ordine.
Ieri a Houston – dove come a Dallas è consentito l’open carry – il porto d’armi «alla mano» in pubblico è costato la vita ad Alva Braziel, un uomo afro americano diventato la vittima numero 570 del piombo di polizia da gennaio. La sua esecuzione ha seguito il logoro copione degli ordini impartiti di posare la pistola che teneva in mano, seguiti immediatamente dagli spari degli agenti che ritenevano «in pericolo le nostre vite».
Su questo sfondo il presidente ha deciso di accorciare di un giorno il viaggio in Europa annunciando per la prossima settimana una visita a Dallas.
Mercoledì Obama aveva condannato le uccisioni di Alton Sterling e Philando Castile spiegando che «un numero consistente di cittadini si sente discriminato per il colore della propria pelle». Il giorno successivo aveva definito «feroce e spregevole» l’attentato di Dallas.
«Vorremmo un presidente capace di pronunciare un discorso per tutte le vittime, non due discorsi separati», ha detto Pasco. I sindacati di polizia operano regolarmente contro le indagini sulle uccisioni da parte degli agenti e rivendicano il diritto insindacabile dei poliziotti valutare le «circostanze attenuanti» che inducono a sparare. Nella quasi totalità dei casi gli agenti sono immuni da sanzioni penali.
Quasi come par condicio, i sindacati chiedono anche che i fatti di Dallas vengano rubricati come hate crime, rivendicando la classifica di «aggravante per razzismo». La richiesta, come l’uso del hashtag #bluelivesmatter, esprime la fondamentale faziosità dell’ala reazionaria della polizia che rivendica la demarcazione fra le forze dell’ordine e «gli altri», e il diritto a impiegare i metodi più mortiferi e sbrigativi per mantenerla.
In questa concezione non manca mai l’insinuazione che il presidente «gioca nella squadra avversaria».
I comunicati della «confraternita» di polizia (e i proclami ben più espliciti che circolano in rete e nelle radio di destra) contengono l’inequivocabile giudizio delle forze conservatrici sul presidente nero.
Una valutazione allineata con quella di Donald Trump che sin dall’inizio aveva fatto del certificato di nascita “mancante” di Obama una strategia per relegare il «presidente musulmano» o «keniota» nel campo dei «diversamente americani».
La «sottile linea blu» della polizia è la demarcazione più quotidianamente tangibile di questa idea che la presidenza Obama ha simbolicamente trasgredito.
Così negli ultimi mesi del suo mandato il presidente nero che voleva essere il grande unificatore si trova usato come simbolo di divisione.
Ieri Obama è nuovamente intervenuto affermando che «malgrado tutto l’America non è divisa come alcuni la vorrebbero dipingere» e che esiste un fondamentale consenso fra Americani «di ogni colore ed estrazione» sulla necessità di correggere abusi e antiche ingiustizie.
La violenza che dilania oggi il suo paese dimostra non già l’errore della società multietnica ma la scia lunga di quelle storiche ingiustizie e discriminazioni. L’errore cioè di quella medesima strada che molti in Europa sembrano decisi ad imboccare.
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