Ali Sonboly, affascinato dalle stragi
Il killer del centro Olympia si chiamava Ali Sonboly, aveva 18 anni, un passaporto tedesco e la cittadinanza iraniana. E parlava perfettamente il dialetto di Monaco. È la «scoperta» della polizia tedesca il giorno dopo la strage, che nulla toglie all’orrore ma aiuta comunque a disegnare un identikit alternativo alla liturgia del terrore.
Un adolescente «ordinario», cresciuto nel quartiere di Maxvorstadt tra i palazzoni popolari stile «Hartz IV» (dal nome degli assegni sociali in Germania) e integrato al punto da gridare – in bavarese – «Sono tedesco» e «Turchi di merda» agli inquilini dell’edificio di fronte all’Olympia che hanno cercato di farlo desistere dal massacro. L’unica nota stonata è la depressione certificata sulla scheda clinica: «Era in cura per problemi psichici dal 2012», spiega la polizia.
Figlio di un tassista e di una commessa nella catena di supermercati Karstadt, era appassionato di giochi virtuali di guerra quanto interessato a fatti di sangue di matrice non islamica. Attento alle stragi negli Usa e – come evidenziano gli inquirenti – particolarmente colpito dalla mattanza del neonazista norvegese Anders Breivik nel 2011. «Non è un caso se l’attacco di Monaco coincide con il quinto anniversario della strage sull’isola di Utøya», ricorda la polizia. Ed esattamente come in Norvegia il killer si era impegnato per fare il più alto numero possibile di vittime. Prima dell’irruzione al centro commerciale, Sonboly aveva cercato di attirare «clienti» nel Mc Donald’s dell’Olympia caricando su Facebook una finta reclame con sconti su bibite e panini. «Accorrete» resta il suo ultimo post sul social-media, e forse l’estremo grido di solitudine del bambino che a scuola veniva «bullizzato» dai ragazzi più grandi, come racconta un ex compagno di classe.
Eppure per capire davvero il passato di Ali vale la pena di ripercorrere una storia sepolta che pure restituisce un indizio inquietante: Un «caso» dimenticato fino a ieri. Sonboly, ipotizzano gli inquirenti, potrebbe essersi ispirato a un coetaneo che sei anni fa uccise, in identico modo, 15 persone. Era la mattina dell’11 marzo 2009. Alla Albertville Realschule di Winnenden (20 chilometri a nord est di Stoccarda) le lezioni vengono interrotte dal terrore. Si chiama Tim Kretschmer, è uno studente di 17 anni e impugna una Beretta 92 con il caricatore pieno. Alle 9.30 fa irruzione nel laboratorio di chimica e comincia a sparare all’impazzata. Cadono sotto i suoi colpi 15 tra insegnanti e compagni di scuola mentre i sopravvissuti tentano la fuga dall’edificio. Quando la polizia sfonda la porta oltre ai morti per terra ci sono 11 feriti gravi.
Mentre Kretschmer inizia a bersagliare anche gli agenti, prima di fuggire superando i posti di blocco intorno a Winnenden e tentando di «dirottare» un’auto sull’autostrada. Fino alla corsa a piedi lungo i capannoni della zona industriale dove, tre ore dopo la strage, Kretschmer entra in una concessionaria di auto e all’arrivo delle pattuglie apre il fuoco contro gli agenti. Viene ferito alle gambe dai tiratori scelti, poi si trincera dietro il parabrezza di un furgone e spara gli ultimi colpi. Uno scambio «sostenuto» per la polizei (due agenti feriti) e fatale per Kretschmer che preferisce uccidersi piuttosto che farsi catturare vivo. Sul terreno dello scontro gli esperti di balistica segnano con il gesso le sagome di 112 bossoli.
Indagini successive ricostruiscono l’ambiente familiare del killer: il padre tirava al poligono e in casa deteneva 15 fucili «sportivi». E, proprio come Ali Sonboly, l’adolescente Kretschmer era stato in cura da settembre 2008 in un ospedale psichiatrico: la clinica neurologica di Weissenhof.
Anche allora i genitori caddero dalle nuvole: «Non abbiamo mai sospettato nulla di anomalo in nostro figlio. Non abbiamo colpa». Non la pensò così il pubblico ministero di Stoccarda che nel 2013 condannò a 1 anno e 6 mesi per omicidio colposo il padre del killer. Fino a ieri di quella vicenda rimaneva in piedi solo la richiesta di danni avanzata dalla famiglia Kretschmer nei confronti della clinica che aveva «curato» il figlio.
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