by Leo Lancari, il manifesto | 26 Luglio 2016 9:31
Hanno marciato da Belgrado fino al confine con l’Ungheria per chiedere al premier ungherese Viktor Orbán di riaprire il confine permettendogli così di entrare in Unione europea. Inascoltati, ieri hanno dato inizio a uno sciopero della fame che giurano di proseguire fino a quando non avranno raggiunto il loro scopo. E’ la pacifica protesta avviata quattro giorni fa da 130 migranti, principalmente afghani e pachistani, ma anche siriani e iracheni. Da quando Budapest ha innalzato una recinzione di filo spinato al confine con la Serbia diverse centinaia di migranti sono rimasti intrappolati, impossibilitati ad andare avanti ma anche a ritornare indietro. A nord come a sud, infatti, la frontiere sono chiuse da mesi e sbarrano definitivamente quella che fino a marzo scorso era la rotta balcanica.
Marcati stretti dai poliziotti serbi, i migranti aspettano seduti a terra in un campo fuori Horgos, un villaggio di circa 6 mila abitanti nei pressi della frontiera. Hanno chiamato la loro protesta «la marcia della pace» e adesso innalzano cartelli di cartone con scritto «Please, open the border».
Parole al vento, c’è da scommetterci. A riaprire quel confine Orbán infatti non ci pensa neanche, anzi l’Ungheria ha varato leggi sempre più dure che puniscono con il carcere i migranti che entrano clandestinamente nel suo territorio Agenti di polizia e militari pattugliano incessantemente strade e villaggi fino a otto chilometri di distanza dal confine, riportando indietro ogni straniero sorpreso senza documenti. Respingimenti spesso eseguiti senza troppi complimenti, come testimoniano i tanti racconti fatti dai migranti circa i maltrattamenti subiti.
Il risultato di questa politica di chiusura è che oltre ai 3.000 migranti bloccati in Serbia, altri sono prigioniere nella terra di nessuno che separa i due paesi. Budapest accoglie infatti appena trenta domande di asilo al giorno, lasciando centinaia di uomini, donne e bambini accalcati lungo la linea di confine in attesa del proprio turno. In che condizioni lo ha denunciato nei giorni scorsi Medici senza frontiere che parla di campi profughi improvvisati, senza servizi igienici né acqua pulita. Una situazione che riguarderebbe tutti i Balcani occidentali ma particolarmente drammatica proprio al confine serbo-ungherese. Condizioni di vita terribili, specie se si considera che riguardano persone fuggite da guerra e miseria, e come conseguenza – denuncia l’organizzazione – hanno un aumento dei disturbi gastrointestinali, delle malattie respiratorie e della pelle. Ma anche psicologiche, con un incremento dei casi di depressione.
Sperare in questo momento che la situazione cambi è davvero un esercizio di ottimismo. Orbán sta infatti puntando tutto sulla demonizzazione dei migranti, al punto di non esitare a accusarli di presunte contiguità con i terroristi che nell’ultimo anno e mezzo hanno insanguinato l’Europa e bollandoli come potenziali stupratori. Paure sulle quali il premier ungherese sta basando la campagna del referendum che il prossimo 2 ottobre chiederà agli ungheresi se accettare o no le quote di rifugiati imposte dall’Unione europea.
Il paradosso è che Orbán rischia di rimanere vittima della sua stessa politica. Mente infatti l’Ungheria rafforza tutti i suoi confini, l’Austria ha appena finito di preparativi per innalzare, nel caso ce ne fosse bisogno, una sua barriera ai confini con l’Ungheria. La paura di Vienna è che il flusso di migranti provenenti da est – e che oggi si attesta sui 20-30 arrivi al giorno – possa improvvisamente crescere. Ma il contenzioso tra i due paesi riguarda ben altro, e in particolare la possibilità che Budapest si riprenda tutti i richiedenti asilo arrivati in Austria attraverso l’Ungheria, come impongono le regole di Dublino. L’argomento sarà al centro dei colloqui che si terranno oggi a Budapest tra lo stesso Orbán e il primo ministro austriaco Christian Kern.
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