by Mariano Giustino, il manifesto | 17 Luglio 2016 12:23
ISTANBUL Giornata storica per la Turchia quella del 15 luglio 2016, che il primo ministro turco Binali Yildirim, con accanto il capo di Stato maggiore dell’esercito, Hulusi Akar, appena liberato dalle mani dei golpisti, ha proclamato «festa della democrazia».
Ma in realtà la novità rilevante che emerge nella drammatica circostanza di questo tentato e fallito golpe è il comportamento assunto da tutte le forze di opposizione.
Per la prima volta nella storia repubblicana di questo paese le forze militari non sono state individuate come garanti della laicità dello Stato e del suo ordine democratico.
Il colpo di stato messo in atto in Turchia da un piccolo gruppo di ufficiali insorti contro il governo Akp è fallito perché sin dal primo momento gran parte dei vertici delle forze armate ha preso le distanze da esso e perché tutti i partiti d’opposizione hanno prontamente reagito condannando quest’atto di violenza contro le istituzioni democratiche turche.
I partiti politici turchi per la prima volta all’unisono hanno solennemente ribadito la centralità del Parlamento turco e del loro stesso ruolo di attori fondamentali del gioco democratico.
Essi hanno visto in questo ennesimo tentativo dei militari di espropriare le istituzioni democratiche di cui essi sono elemento costitutivo come un inaccettabile attacco alle stesse fondamenta di uno stato democratico. E lo hanno respinto con fermezza.
È questo un elemento significativo che fa sperare in una ricostruzione della democrazia turca in un momento di grave involuzione autoritaria.
Nella storia della Repubblica turca tutti e quattro i precedenti colpi di Stato messi in atto dai militari sono stati eseguiti verificando accuratamente il consenso di vasti apparati della burocrazia statale e della sua società civile oltre che dei partiti ispirati dalla ideologia kemalista di Artatürk.
E i militari intervenivano per tutelare i loro interessi col pretesto di difendere la laicità dello Stato mettendolo al riparo da ogni deriva islamistica.
La presa di distanza dei partiti politici turchi dal golpe rende giustizia di una visione errata dei militari raffigurati attraverso uno stereotipo che non corrisponde alla realtà storica, dipingendoli come una forza amica del popolo e in difesa dei valori progressisti e laici.
Niente di più falso. I militari soprattutto con i colpi di Stato del 1960 e del 1980, i più cruenti della storia turca, hanno avuto una forte apertura verso le istanze dell’Islam politico e del nazionalismo, e hanno prodotto una Costituzione fortemente autoritaria e liberticida lesiva dei diritti di tutte le minoranze con una una visione fortemente polarizzante della società turca i cui effetti devastanti sono tuttora visibili.
I titoli dei giornali di opposizione campeggiavano con le scritte: «Soluzione democratica, Né carro armato ne carabina. Né politica anticostituzionale dell’Akp. Contro ogni golpe civile e militare».
Queste sono le parole d’ordine dei due maggiori partiti di opposizione laica, il Partito repubblicano del popolo, il socialdemocratico Chp, erede del partito kemalista di Atatürk, e quello del Partito democratico dei popoli, di sinistra radicale e filocurda.
Nessuno poteva immaginare fino a pochi giorni fa un simile scenario; e ciò, in un momento in cui il presidente Erdogan è impegnato nel tentativo di schiacciare l’opposizione politica e ogni voce critica nei riguardi del suo governo e della sua persona.
Una parte minoritaria dell’esercito ha tentato il golpe bloccando l’aeroporto e le maggiori arterie stradali a Istanbul e Ankara, bombardando il Parlamento, occupando i maggiori media del paese e attaccando la sede centrale della polizia e dei servizi segreti.
Il presidente Erdogan, in collegamento videotelefono tramite FaceTime dal suo cellulare e ripreso dalla CNNtürk, ha invitato i cittadini turchi a scendere nelle piazze, a fermare i carri armati e a difendere la democrazia.
La rete capillare del mastodontico apparato dell’Akp ha mobilitato decine di migliaia di militanti, grazie anche ai ripetuti appelli dei muezzin lanciati dai minareti.
Sono stati mobilitati tutto gli apparati di polizia e perfino i vigili del fuoco che hanno alzato barricate per fermare i carriarmati che a decine bloccavo le strade delle maggiori citta turche.
I golpisti hanno sparato sulla folla in diversi punti del paese. Si contano oltre trecento morti e 1440 feriti. Sono stati effettuati 2.839 arresti. I militari saranno processati per alto tradimento.
Erdogan sostiene che dietro il colpo di Stato ci sia l’organizzazione di Fethullah Gülen, filosofo islamico, suo stretto alleato fino al 2013, ed ora suo acerrimo nemico accusato di aver ordito tale complotto per rovesciare il suo governo democraticamente eletto.
Gülen dal suo esilio in Pennsylvania ha smentito seccamente. È probabile che tale golpe sia maturato all’interno di alcune gerarchie militari che si sentivano minacciate dalla operazione di pulizia in atto all’interno delle forze armate da parte del partito di governo. Ne sapremo di più nei prosimi giorni.
Sicuramente Erdogan potrebbe uscire più forte nel paese da questa drammatica avventura. Si annunciano tempi molto duri per gli oppositori. Quei pochi spazi di democrazia esistenti potrebbe ulteriormente restringersi.
Vedremo se il presidente turco vorrà utilizzare questa vittoria per finire di regolare i conti con i suoi oppositori, oppure se mostrerà apprezzamento nei confronti delle forze politiche che nella notte del 15 luglio lo hanno salvato e se aprirà quel confronto e quel dialogo che sono sempre mancati in Turchia.
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