Sud Sudan: Incubo guerra civile a Juba, 272 morti. Civili in fuga

by Rita Plantera, il manifesto | 12 Luglio 2016 9:50

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Dall’8 luglio scorso – a ridosso del quinto anniversario di indipendenza e in violazione di fragili accordi di pace – a Juba è l’inferno conclamato, scandito dall’eco dei colpi di mortaio, lanciagranate, elicotteri da combattimento, carri armati e delle armi d’assalto pesanti. Uno scenario che acuisce i timori sulle possibilità che una nuova guerra civile possa travolgere il Sud Sudan già devastato da una grave crisi economica e umanitaria.

Le difficoltà nelle comunicazioni, le piogge torrenziali e la violenza dei combattimenti scoppiati tra i soldati governativi fedeli al presidente Salva Kiir e i ribelli che sostengono il suo vice Riek Machar rendono più difficile la situazione di migliaia di civili già afflitti da abusi e violenze. Mentre scriviamo non vi sono ancora bilanci ufficiali ma secondo alcune fonti del ministero della sanità 272 persone, tra cui 33 civili e due caschi blu cinesi sarebbero stati uccisi solo nella giornata di venerdì.

Sebbene non siano del tutto chiare le ragioni alla base di tale escalation di violenze, pare che a innescarla sia stata una sparatoria – dopo discussioni a un posto di blocco – tra soldati rivali nella notte di giovedì in cui ne sarebbero morti cinque. Un episodio che ha fatto degenerare una situazione contingente e contribuito a far implodere tensioni già alte da aprile, quando Machar è tornato a Juba e si è reinsediato come vicepresidente in un governo di unità nazionale guidato da Kiir, nel rispetto degli accordi di pace ma in mancanza dell’appoggio concreto e la fiducia reciproca tra i due leader. E alla luce del fallimento di quegli accordi laddove tanto Kiir quanto Machar non hanno dimostrato la volontà di implementarne almeno i punti chiave tra cui la smobilitazione delle rispettive forze e la promozione della loro integrazione.

Gli scontri sono continuati ieri nonostante l’appello dei due leader politici al cessate il fuoco e la dichiarazione votata all’unanimità con cui domenica il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha chiesto l’immediata cessazione delle violenze e condannato ogni attacco alle basi Onu dove, a Jebel, hanno trovato temporaneamente rifugio circa 30.000 civili. Cinque anni fa, a luglio 2011, il Sud Sudan si è reso indipendente dopo che a gennaio dello stesso anno la stragrande maggioranza dei sud sudanesi si era espressa per la secessione dal Sudan. Nasceva il più giovane stato del mondo che dal Sudan ha ereditato sia le ricchezze petrolifere sia le tensioni etniche. Se da un lato il Sud Sudan si è da subito trovato a fronteggiare relazioni ostili con il Sudan (per contenziosi legati alla gestione dei flussi di petrolio attraverso gli oleodotti sudanesi verso il Mar Rosso) dall’altro nel giro di pochi anni è stato travolto da una guerra civile scoppiata a dicembre del 2013 che secondo l’Onu ha fatto circa 50.000 morti e più di 2,2 milioni di rifugiati e sfollati.

Ad agosto 2015 dopo mesi di negoziati ospitati dall’Etiopia, e diversi accordi di cessate il fuoco non rispettati, il presidente Salva Kiir ha firmato un accordo di pace per porre fine a quasi 2 anni di guerra civile. Un accordo «mediocre», dirà Kiir durante la cerimonia, firmato con «serie riserve» e sotto la minaccia di nuove sanzioni internazionali e di un embargo sulle armi.

Un accordo che secondo Kiir poteva ritorcersi contro la regione. Preoccupazioni che il presidente ha meglio esplicitato dichiarando in un’intervista rilasciata ad Al Jazeera che quell’accordo «non era stato fatto per essere implementato».

Parole che ora alla luce di quanto sta accadendo in questi giorni suonano premonitrici. L’accordo prevedeva la smilitarizzazione della capitale rimasta sotto il controllo del governo; il controllo bipartisan sulle aree petrolifere del paese; il ritorno di Machar come vice presidente.

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