Gli apocalittici del Sì

Gli apocalittici del Sì

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Un tempo c’erano i gufi, gli oppositori prevenuti di ogni cambiamento. Costoro – secondo quanto veniva propagandato dai costruttori del nuovo – utilizzavano toni apocalittici, inaccettabili. Perché strillare se tutto veniva svolto entro il solido recinto della nostra democrazia? Ora il vento è cambiato e l’apocalisse appare nei discorsi dei promotori della riforma. Le conseguenze di una mancata approvazione della riforma sarebbero drammatiche. Non solo cade il governo, ma non se ne potrebbe fare nessun altro; non solo l’attuale – peraltro risicata e ondivaga – maggioranza parlamentare verrebbe sconfessata, ma l’intero parlamento verrebbe delegittimato; non solo si esprimerebbe la contrarietà a questa riforma della Costituzione, ma ci si precluderebbe la possibilità di ogni cambiamento futuro.

Forse è il caso di tornare a ragionare con misurata serenità. Qualora dovesse vincere il No al referendum non avverrebbe nulla di drammatico.

Se il governo dovesse ritenere concluso il suo mandato e rassegnare le dimissioni nelle mani del presidente Mattarella, questi – come sempre avviene – svolgerà le sue consultazioni per individuare un successore che possa ottenere una nuova maggioranza parlamentare. Un governo pienamente politico ovvero un governo con profilo più segnatamente istituzionale. Sarà possibile perseguire la prima ipotesi qualora una nuova maggioranza parlamentare possa formarsi sulla base di un programma di governo innovativo.

In fondo è già avvenuto in questa legislatura con il governo Renzi che ha sostituito quello Letta, nella precedente con la successione di Monti a Berlusconi. Nessuna ragione d’ordine costituzionale può ostacolare una simile soluzione anche in questo caso. Vero è che potrebbero non esservi le condizioni “politiche”: a questo si attaccano gli apocalittici di oggi. Come in ogni scenario drammatizzato si vuol far credere che non vi siano alternative, ma è questa una previsione priva di fondamento. Chi può onestamente dire quali saranno le concrete condizioni politiche che si verranno a creare dopo il referendum? Al più si può prevedere un sobbalzo, l’apertura di una dinamica che porterà a mutamenti radicali, poco prevedibili. Altro che stasi.

È, allora, possibile ma non scontato che dopo il referendum non si riesca a trovare una maggioranza politica alternativa all’attuale. In tal caso, il capo dello stato, cui spetta salvaguardare l’assetto costituzionale complessivo dei poteri, potrà (dovrà?) verificare le condizioni perché si possa varare un “governo istituzionale”. Con molte possibilità di successo. Sarebbe in effetti difficile per delle forze politiche responsabili negare il sostegno ad un governo che si proponesse di modificare la legge elettorale divenuta – a seguito del referendum – irrazionale e che predisponesse la legge finanziaria in scadenza. Un governo di scopo diretto dalla seconda carica dello Stato o dal ministro dell’Economia, per poi giungere alle elezioni in una situazione di normale dialettica democratica.
Si scongiurerebbe così anche la seconda drammatizzazione. Che il nostro parlamento stia vivendo una fase di crisi della propria legittimazione non può essere negato. Ciò che appare sfrontato è l’individuare la causa nel rifiuto del corpo elettorale di una modifica della costituzione che ha tra i suoi caratteri quello di ridurre il ruolo autonomo del parlamento. Non voglio neppure qui ripetere le ragioni che fanno ritenere esattamente l’opposto: la delegittimazione del parlamento ha origine proprio nell’utilizzazione forzata delle regole parlamentari e nell’incapacità di rappresentanza politica autonoma dell’organo che le vicende della riforma costituzionale hanno messo in drammatico rilievo. Il fallimento della riforma costituzionale può ben essere letta come un tentativo di ridare dignità ad un parlamento offeso.

Certo, una nuova legge elettorale dopo il referendum fallito s’imporrebbe. Ed è proprio da lì che può iniziare una risalita, una ri-legittimazione della rappresentanza politica, altro che drammatizzare la crisi.

Che dire poi della “minaccia” di non poter più cambiare. Dopo questa riforma si chiuderebbe per sempre ogni possibilità di trasformazione. Condannati ad un futuro di declino e impotenza. Una serie veramente cospicua di argomenti valgono a confutare questa torva prospettiva. C’è da chiedersi anzitutto se il rischio di non riuscire più a cambiare possa comunque giustificare un peggioramento. È la logica del cambiamento per il cambiamento che non può essere condivisa.

Perché tanti fautori dell’attuale riforma si opposero allo stravolgimento della costituzione nel 2005? Solo perché a proporla erano le forze del centrodestra? Ovvero perché era una riforma anch’essa fortemente innovativa, e però di segno regressivo? Se – come dev’essere – è il senso del cambiamento che deve essere valutato e non certo la mera capacità di cambiare (in peggio) è chiaro che l’argomento di non riuscire più a modificare l’assetto costituzionale perde molta della sua forza. Ma poi è questa una previsione priva di riscontro storico. Se ci volgiamo al passato non può dirsi che dopo i fallimenti delle “grandi” revisioni del testo costituzionale si sia arrestata la capacità dei parlamenti di modificare il testo costituzionale. Dalla riscrittura del Titolo V all’introduzione del pareggio di bilancio, non è mai mancata la spinta al cambiamento del testo costituzionale. E non sempre è stato in meglio.

Infine, c’è scarso senso della storia in questa presunzione di far terminare la stagione delle riforme con quest’ultima revisione. È la logica dell’ultima spiaggia che appare una visione miope, non in grado di guardare oltre al proprio orizzonte. Ed è proprio per trovare nuovi lidi che è necessario opporsi a questo mesto tramonto che ci viene proposto in nome del nuovo.

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