Seveso, la cicatrice di un’Italia che cambia
Una nube tossica con almeno 14 chili di diossina invase i cieli lombardi. Oggi sull’area contaminata sorge un bosco di querce. Tre direttive comunitarie dopo, la gestione dell’incidente chimico è ancora un’impresa
«Voglio portare la testimonianza di una città che ha reagito e guarda al futuro in modo positivo e che sulla base della memoria di quell’evento porti a un riscatto, progettando azioni concrete che facciano di Seveso una città di riferimento nel campo ambientale». Queste le parole del sindaco di Seveso Paolo Butti al convegno nazionale «A 40 anni dall’incidente dell’Icmesa di Seveso: dal disastro alla sicurezza», organizzato dall’associazione Ambiente e Lavoro il 6 maggio scorso alla Camera del Lavoro di Milano.
Quattro decenni sono un tempo sufficiente per un bilancio degli errori compiuti allora e delle loro conseguenze. Il gruppo di ricerca diretto da Pier Alberto Bertazzi e Angela Pesatori dell’Università di Milano ha condotto in questi quarant’anni diversi studi epidemiologici sulle ricadute sanitarie del disastro di Seveso, nonché sull’espressione genica nelle cellule del sangue su soggetti umani esposti alla diossina in collaborazione con il National Cancer Institute statunitense. Al convegno, Bertazzi ha presentato alcune conclusioni di questi lavori che sottolineano l’importanza della capacità di gestire – e la responsabilità di prevenire – il rischio in situazioni di emergenza.
Dal 1976 al 2013, nelle zone limitrofe all’incidente non si è riscontrato un aumento della mortalità generale o dell’incidenza di tumori maligni. Eppure, nei primi anni si erano osservati aumenti di decessi dovuti a patologie cardiovascolari e respiratorie che possono essere interpretati non soltanto come effetto della diossina, ma anche dell’estremo disagio cui la popolazione è stata costretta a vivere dopo l’accaduto.
I venti casi in più di neoplasie ematologiche rispetto alle attese, e alcuni casi di tumore alla mammella e al colon retto e di diabete, inoltre, confermano quanto già si sapeva sulla tossicità della diossina: si tratta di aumenti indicativi che, in assenza di indagini adeguate, probabilmente sarebbero passati inosservati.
Come dimostrano anche le parole di Butti, a quarant’anni dallo scoppio di un reattore della fabbrica dell’Icmesa che il 10 luglio del ’76 riversò una nube tossica contenente fino a 14 kg (a oggi non si conosce il dato esatto) di tetracloro-dibenzo-diossina (TCDD) nell’atmosfera, pochi intendono citare Seveso per stigmatizzare l’Italia – ma non solo l’Italia – arretrata e incapace di affrontare le sfide del capitalismo industriale dopo il boom economico. O per sottolineare le promesse mai davvero realizzate in campo ambientale, visto che di passi da fare ce ne sono molti.
Eppure, rileggendo oggi quelle vicende, ne cogliamo la frattura culturale. Nacquero allora temi come l’attenzione alla trasparenza, il rifiuto della monetarizzazione della salute, il coinvolgimento di operai, sindacati, medici, scienziati (con le donne spesso in prima fila) e una concezione nuova dell’ambiente che non separasse l’interno e l’esterno della fabbrica.
I diversi soggetti sperimentarono in quegli anni un’«azione-ricerca» che ha richiesto tempo anche solo per imparare a capirsi nei rispettivi linguaggi: per tradurre bisogni, sintomi e attese degli operai e dei cittadini in un linguaggio tecnico adatto a descrivere le loro esigenze reali. Come osservava Ivar Oddone, partigiano e pioniere della medicina del lavoro italiana, assunse una rilevanza decisiva la «non delega», già emersa nelle lotte operaie di Mirafiori nel 1969.
Eppure, da questa distanza, come ignorare lo stato di salute precario del nostro paese che condiziona ed è al contempo strettamente connesso con lo stato di salute globale? Nel parlare di un prima e un dopo Seveso nell’opinione pubblica, a livello politico e sul piano della ricerca va evidenziato che mai come allora si compresero il ritardo strutturale nell’applicare norme riguardo agli effetti nocivi di sostanze tossiche già ampiamente noti e la ricaduta degli incidenti industriali su ampia scala, i cui effetti si trasmettono di generazione in generazione se non sono osservati, misurati e controllati in modo strutturalmente efficace.
Se non partecipate in maniera informata con tutta la popolazione, decisioni delicate e complesse in campo ambientale possono produrre persino un effetto contrario alle previsioni. Quindi viene spontaneo chiedersi che fine abbiano fatto quelle importanti premesse e anche le buone pratiche.
L’epidemiologia italiana attuale ha recepito e rilancia questo messaggio. Lo dimostra, ad esempio, il progetto di epidemiologia partecipata fatto a Manfredonia dove, due mesi dopo Seveso, una nube di arsenico sprigionata da uno stabilimento dell’Enichem provocò un disastro analogo.
L’epidemiologia partecipata richiede collaborazione interdisciplinare nella ricerca per offrire uno sguardo coerente, che sappia cogliere fenomeni complessi sul piano scientifico e sociale. Costa tempo, fatica e risorse.
Ma non ci sono scorciatoie, come insegna un sapere che paga lo scotto di muoversi ex-post, ma invita al contempo a far crescere consapevolezza e comportamenti preventivi ex-ante.
Oggi, anche grazie alle direttive comunitarie per la prevenzione degli incidenti industriali rilevanti, «Seveso I» (recepita in Italia con il DPR 175/88) e «Seveso II» (D. Lgs. 334/99) vi sono presupposti oggettivi per la prevenzione e il controllo sanciti dalla legge, come trasparenza e criterio di proporzionalità del rischio.
D’altro canto, fa riflettere la diversità nell’applicazione delle norme a livello regionale e nazionale.
La direttiva comunitaria «Seveso III» (D. Lgsl.105/2015) istituisce un nuovo regime di controlli sul piano regionale e nazionale. Ma non è chiaro come potranno essere garantiti in mancanza di investimenti specifici. Inoltre non si può trascurare il rispetto della simmetria tra esigenze del lavoro e della salute nell’applicazione di controlli efficaci di fronte alla tendenza a delocalizzare le industrie.
Gli studi neuroscientifici evidenziano le configurazioni neurali che si formano con l’apprendimento, per poi insediarsi e funzionare secondo logiche funzionali economiche (pensiero veloce), ma non solo (pensiero lento).
La discussione pubblica sull’ambiente deve tenerne conto: in un’epoca in cui si ritorna a parlare dei valori della democrazia, di giustizia globale e di scienza partecipata, sono temi su cui discutere con modalità e tempi adeguati. Favorire il dialogo fra scienza e società riguardo al rispetto e alla salvaguardia dell’ambiente e della salute sarebbe un gesto di maturità istituzionale.
* L’autrice fa parte dell’Unità di Storia della Medicina, Dipartimento di Filosofia Sapienza Università di Roma
Il caso, maxi risarcimento e due lievi condanne
Il 10 luglio del 1976, alle 12.37, nello stabilimento Icmesa di Meda, un reattore chimico utilizzato nella produzione di diserbanti andò in avaria ed esplose. Una nube tossica contenente un alto tasso di diossina fuoriuscì dal reattore e fu spinta dal vento verso sud-est.
Diverse cittadine della Brianza ne furono investite, ma il comune più colpito fu quello di Seveso, confinante con Meda. La stampa diede notizia dell’incidente solo una settimana dopo.
Quasi 700 persone residenti nell’area più contaminata furono sfollate e poterono tornare nelle proprie case solo a distanza di oltre un anno. Una quarantina di famiglie, invece, persero le loro case, che furono distrutte e ricostruite negli anni successivi.
L’area più vicina all’incidente fu dichiarata inaccessibile e bonificata interamente. Oggi è coperta da un bosco di querce.
La Givaudan che controllava l’Icmesa indennizzò cittadini e istituzioni per un totale di circa 300 miliardi di lire. Dei 5 dirigenti inizialmente denunciati, nel 1986 solo Jorg Sambeth e Herwig von Zwehl furono condannati rispettivamente a un anno e mezzo e due anni di reclusione.
Sulla vicenda, Sambeth ha scritto il romanzo-confessione «Zwischenfall in Seveso» (2004, ed. Unionsverlag), mai tradotto in Italia.
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