Il veleno degli «innocenti»

by Bruno Cartosio, il manifesto | 10 Luglio 2016 16:06

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«Quando un uomo nero non sta al suo posto», scriveva James Baldwin nel 1963, «il cielo e la terra sono scossi fino alle fondamenta»

Occhio per occhio, dente per dente: poteva succedere, è successo. Sei morti: cinque uomini in divisa e lo sparatore, Micah Xavier Johnson, che ha detto di volere uccidere bianchi e in particolare poliziotti, per vendetta; poi nove feriti non gravi, inclusi due civili. E’ successo lo scorso giovedì notte a Dallas, come sappiamo, al termine della sacrosanta manifestazione, pacifica, in protesta per l’uccisione di due afroamericani – Alton Sterling e Philando Castile – da parte di poliziotti a Baton Rouge e a St. Paul, in Louisiana e in Minnesota. Dopo Ferguson e tutte le altre centinaia di morti, neri e non, ammazzati dalla polizia in questi ultimi due anni: oltre 500 dall’inizio dell’anno, 990 nel corso del 2015.

A Dallas hanno manifestato di nuovo venerdì, nonostante tutto, così come hanno fatto agli altri capi degli Usa, da New York a Oakland, da Denver a St. Paul. Gli uomini e le donne di Black Lives Matter, il movimento che ha preso il nome dagli slogan dei manifestanti durante i giorni della rabbia di Ferguson, nel 2014, non hanno rinunciato a scendere nelle strade. E con loro molti altri, soprattutto neri, ma anche ispanici e bianchi, giovani e non, donne e uomini. Non saranno zittiti né da chi ha scelto o sceglierà di rispondere da solo alla violenza con uguale violenza, né dalle infamie razziste rovesciategli addosso dai provocatori di Fox News, secondo cui la responsabilità della sparatoria di Dallas ricade sul movimento di protesta.

Nel 1963, James Baldwin aveva pubblicato un pamphlet intitolato La prossima volta il fuoco, pieno di rabbia e frustrazione, di consapevolezza della storia. Mesi prima che la violenza della polizia innescasse la prima rivolta urbana del decennio a Harlem. Da allora, a intervalli, fino alla vicenda di Michael Brown a Ferguson, gli eccessi della polizia provocano sollevazione. Negli anni Sessanta alla lista senza fine dei soprusi esercitati dal razzismo dominante nelle istituzioni e nella società gli afroamericani risposero infine con la rivolta di massa e violenta – il fuoco – e, insieme, con l’organizzazione politica e la mobilitazione culturale. Non c’è dubbio che la loro sollevazione abbia finito per ribaltare l’ordine razziale dominante da secoli. L’elezione di Obama, quale che sia ora il giudizio sul suo operare presidenziale, è il frutto ultimo di quel sovvertimento.

Ma proprio il suo successo, voluto da quella che sarebbe stupido e miope non definire la parte migliore dell’elettorato, ha riaperto la dialettica perversa dell’odio razziale come strumento di mobilitazione reazionaria. (Uno dei primi e più volgari insulti nei suoi confronti era stato in una vignetta del New York Post, stessa proprietà di Fox News, in cui Obama era raffigurato come una scimmia, abbattuta da una coppia di poliziotti bianchi perché la sua indocilità l’aveva resa pericolosa. E’ lo stesso epiteto che un fascista di Fermo ha rivolto a una donna nigeriana, prima di ammazzarne il marito che si è ribellato all’insulto.)

«Quando un uomo nero non sta al suo posto», ha scritto Baldwin, «il cielo e la terra sono scossi fino alle fondamenta». Le polizie locali, come altre parti della società in cui si incarna un potere, non sono mai state immuni dalle paure del terremoto. Reagiscono come sempre i dominatori nei confronti dei ribelli, con violenza. Lo testimoniano la continuità, le modalità stesse delle uccisioni e l’estesa immunità degli uccisori. E hanno fatto mostra clamorosa dell’arroganza che sostiene tutto ciò gli agenti che voltarono le spalle al sindaco di New York De Blasio che aveva deciso di aprire un’indagine sui responsabili della morte di Eric Garner a Staten Island.

Queste sono “spie”. E’ la società nel suo complesso che è attraversata e divisa in due dall’involuzione reazionaria (che riguarda anche altri temi, naturalmente). C’è chi gioca sporco, indicando nello stesso Presidente nero, nei neri, negli ispanici, negli immigrati il Nemico, responsabile del fatto che l’America non è più l’«America». Non a caso uno degli slogan di Trump è «rifare l’America grande», escludendo questi, deportando quelli, costruendo un muro ai confini. E l’idea che passa, in chi raccoglie il messaggio, è che il ritorno indietro alle antiche certezze della discriminazione razziale e dell’esclusione sociale possa garantire il recupero di una quota di benessere e stabilità paragonabili a quelle di 50 anni fa. Queste iniezioni di veleno sono continuate per decenni, in parallelo con l’attacco sociale in patria e le politiche di guerra oltre confine.

In questi ultimi anni i movimenti degli afroamericani e ispanici, dei lavoratori che chiedono il salario minimo a 15 dollari l’ora e di chi difende il diritto all’aborto e alla diversità di genere, insieme con mobilitazioni importanti come quelle di Occupy e dei giovani che sostengono Bernie Sanders (magari dopo aver sostenuto Obama), hanno sollevato molti veli su chi ha responsabilità di quei veleni. Hanno anche reso molti consapevoli dell’ingiustizia sociale e della frustrazione per il mancato rimedio. E’ insopportabile, scriveva ancora Baldwin, che i «responsabili della devastazione sociale» possano nascondere se stessi dietro la maschera dell’«innocenza». Le sue parole valgono per oggi come per ieri: la rivendicazione stessa di questa falsa innocenza «è criminale».

A Dallas la denuncia ha preso due delle strade possibili: la protesta di massa e l’azione vendicatrice individuale, separate tra loro ma affiancate e simultanee, come se aprissero a un bivio. Non è così. Le mille proteste di questi anni, si dirà, non hanno fermato le uccisioni di neri da parte della polizia, pur avendo sensibilizzato al problema milioni di americani. Ma si dovrà dire anche che la strada imboccata da Micah Johnson – a suo modo “lupo solitario”, marchiato dalla guerra e armato, in una società segnata dall’ingiustizia e infestata dalle armi – appare senza sbocchi. Il disequilibrio nei rapporti di forza lo rendono tale, anche se altri ne seguissero l’esempio.

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