La Consulta è intenzionata a promuovere oggi la legge del governo Letta sul prelievo di solidarietà alle pensioni “d’oro” del 2014. Le ragioni sono molte. Non aveva natura tributaria. Ha riguardato solo le pensioni più “ricche”. Aveva una motivazione solidaristica ben definita e politicamente esplicitata, tant’è che ve n’è traccia nel dibattito parlamentare. Rientrava a pieno titolo nel potere del legislatore intervenire sulle pensioni. Non contrasta con gli articoli 81 e 97 della Costituzione che impongono, anche per le Regioni, l’equilibrio del bilancio.
Oggi, con questi ragionamenti, la Consulta potrebbe rimandare al mittente le otto ordinanze — tra le sei della Corte dei conti (le sezioni del Veneto, della Calabria, dell’Umbria e della Campania) e le due della Commissione giurisdizionale per il personale della Camera dei deputati — che hanno chiesto di dichiarare incostituzionale il contributo di solidarietà sulle pensioni da 91mila euro in su, deciso dal governo Letta e inserito nella legge si stabilità del 2014, con una validità prevista per un triennio.
Relatore il giudice della Cassazione Rosario Morelli. Forse un paio di assenti, l’avvocato Giuseppe Frigo per ragioni di salute e il costituzionalista Augusto Barbera alle prese con un’indagine giudiziaria. La Corte costituzionale, con 13 giudici, riaffronta il tema delle pensioni e dei tagli governativi che già fece scalpore nel maggio di un anno fa con la sentenza firmata dalla lavorista Silvana Sciarra (la 70 del 2015) sul blocco delle rivalutazioni per le pensioni più basse. La polemica col governo fu dura. Allora i giudici erano 12 e finì con un clamoroso sei a sei, dove ebbe peso il voto doppio dell’allora presidente Alessandro Criscuolo. Ma oggi, dopo l’udienza pubblica della mattina, la decisione potrebbe essere assai meno contrastata e traumatica anche per gli equilibri interni.
Vediamo perché, partendo da alcuni dati. Il prelievo della legge Letta era progressivo, il 6% per gli importi da 91 a 130mila euro, il 12% per quelli da 130 a 195, il 18% per quelli ancora superiori. Se la Corte dovesse promuovere i ricorsi lo Stato dovrebbe rimborsare circa 160 milioni di euro. Ma ovviamente, in questo caso, il problema riguarderebbe soprattutto il futuro, e cioè l’impossibilità, per rispettate il dettato costituzionale, di fare altre leggi simili. Numerosi i principi della Costituzione che, a detta dei ricorrenti, sarebbero violati, da quello di uguaglianza (articolo 3), al diritto a una retribuzione proporzionata (35 e 36), all’equilibrio di bilancio (81 e 97), alla tutela dei lavoratori (38), al dovere di concorrere alle spese pubbliche (53). Sia l’Avvocatura dello Stato che l’Inps, nelle memorie presentate, sostengono che i ricorrenti hanno del tutto torto e quindi le loro tesi vanno respinte. Perché tecnicamente le motivazioni addotte sono inadeguate e insufficienti, al punto chegli atti andrebbero rimandati indietro per una valutazione ulteriore.
Ma l’argomento più rilevante che oggi potrebbe spingere gli alti giudici a esprimersi favorevolmente al prelievo forzoso sulle pensioni più abbienti sarebbe quello che l’intervento economico del governo Letta non aveva la caratteristica di un «manovra tributaria». Non era, insomma, una sorta di tassa mascherata, ma una mossa per garantire un migliore equilibrio tra gli stessi pensionati. Tant’è che tra gli obiettivi del prelievo, di natura esclusivamente triennale, c’era anche quello di sostenere i lavoratori che in quel periodo risultavano “esodati”.
Lo stesso governo Letta, come dimostrano gli atti parlamentari, aveva discusso e chiarito la questione proprio per evitare la scure della Corte costituzionale che invece nel 2013 — la sentenza 116 firmata dall’ex presidente della Corte Giuseppe Tesauro — aveva bocciato una legge del governo Berlusconi, poi riproposta anche dal governo Monti, che imponeva un prelievo tra il 5 e il 15% sulle pensioni oltre i 90mila euro. In quel caso c’era proprio quella “natura tributaria” che invece risulterebbe assente dalla legge Letta.
Due principi costituzionali infine non sarebbe neppure intaccati, quello del diritto dei lavoratori a una pensione giusta, perché la ratio delle legge mirava a un bilanciamento tra pensioni ricche e pensioni povere e quello dell’equilibrio di bilancio, perché la legge non comportava un’ulteriore spesa.