Quattro leader per una Spagna Verso un sorpasso storico a sinistra
Come un popolo che ha dato al mondo Cervantes e Lorca, Goya e Picasso, Velazquez e Gaudí possa votarsi all’autodistruzione, è un mistero che neppure gli spagnoli sanno spiegare. Si è votato a Natale, si rivota il 26 giugno. Sei mesi senza governo, sei mesi di inutili trattative. E ora stessi candidati, stessi comizi e — secondo i sondaggi — stessi risultati. L’unica novità è che quel diavolo di Pablo Iglesias — aura da idealista, abilità da prestigiatore — si presenta con i comunisti di Izquierda unida : «Unidos Podemos» diventerà così il primo partito della sinistra, superando i poveri socialisti. E questo complicherà ulteriormente le cose.
La Spagna è di malumore, in crisi di autostima, in rivolta contro l’establishment e i vecchi partiti — come tutto il mondo — ma senza credere sino in fondo ai nuovi. Pochi anni fa avevano il tennista più forte, il cuoco più bravo, il giudice più onesto, il regista più trasgressivo.
Ora Nadal è sempre rotto, Ferran Adrià ha chiuso, Garzon è stato estromesso dai suoi stessi colleghi, Almodóvar beccato con i soldi a Panama. La crisi è stata durissima: un panorama di gru e cantieri interrotti, senzatetto sotto i portici delle piazze reali; all’impoverimento si è aggiunta una gara di scandali tra popolari e socialisti; pure l’Infanta Cristina è finita sotto processo, per lei hanno chiesto otto anni, per il marito 19 e mezzo, a giorni il temuto giudice Castro farà conoscere la sentenza. Ora il Paese si è un po’ ripreso, la crescita è buona, la Germania — che controlla il debito pubblico — ha dato una mano, l’Europa di conseguenza pure: tollera un deficit al 5%, il doppio di quello italiano. I disoccupati sono scesi sotto i 4 milioni, ma è un dato difficile da festeggiare; anche perché non include chi si è arreso e il lavoro neppure lo cerca più. La vera arma del premier Rajoy è l’ascesa dell’uomo con il codone da tanguero che spaventa i moderati: El Coleta, Pablo Iglesias.
Iglesias: il Messia
I suoi comizi sono imperdibili. Messe laiche, dove lui è al contempo il sacerdote e la divinità. Ride e piange, grida e sussurra. Bacia tutti sulla bocca, donne e uomini: a Barcellona ha ribaciato a fior di labbra Xavier Domenech, l’alleato catalano, come già aveva fatto in Parlamento per lo scandalo del re, da cui Iglesias va in jeans e camicia bianca aperta. Molto simpatico, molto carismatico, del tutto inaffidabile: «È un camaleonte. Un mutante. Al mattino è comunista, a pranzo peronista, il pomeriggio anarchico, la sera socialdemocratico, la notte patriota» ha detto di lui Susana Diaz, presidente dell’Andalusia e donna forte del partito socialista. L’ultimo slogan di Iglesias in effetti è «La patria eres tu», la patria sei tu.
«È la riformulazione postmoderna e addolcita del fascismo — dice Javier Cercas, lo scrittore che ha compiuto il miracolo di vendere milioni di copie con un libro sulla guerra civile, Soldati di Salamina —. Lo schema del bene contro il male, della Spagna contro l’anti Spagna è un argomento ricorrente nella nostra storia. José Antonio diceva di preferire i comunisti ai borghesi; oggi Podemos dice che i populisti sono meglio della casta, e loro sapranno volgere il populismo a sinistra. È un’operazione spregiudicata, ma avrà successo, perché il Paese è percorso da pulsioni disperate e irrazionali».
I più disperati sono i socialisti. A meno di clamorose rimonte, il bel ragazzo Pedro Sánchez vive i suoi ultimi giorni da segretario. Se a Iglesias riuscirà il Sorpasso, come lo chiama — El Coleta parla perfettamente l’italiano e cita di continuo Gramsci e Berlinguer —, Sánchez dovrà andarsene e il suo successore sarà indicato dalla Diaz; che potrebbe anche indicare se stessa.
Il Psoe si sta rinserrando nel feudo andaluso; e gli andalusi sono contrarissimi all’ipotesi di un governo con Podemos, che vuole concedere il referendum per l’indipendenza ai catalani e ai baschi. Senza le industrie di Barcellona e le banche di Bilbao, alla Spagna profonda resta solo il turismo. E poi Psoe e Podemos sono in disaccordo su tutto, dall’economia all’ideologia. «Il mio non è trasformismo, è esercizio di previsioni storiche» filosofeggia Iglesias. Ora ad esempio prevede di distruggere il partito socialista; e ci sta riuscendo. Non a caso il suo bersaglio preferito è l’andaluso Felipe Gonzalez; che lo odia e lo accusa di aver preso soldi dal satrapo venezuelano Chavez.
La sera del 26 giugno il rebus del governo si ripresenterà tal quale. Spingono per la grande coalizione l’Europa, la Merkel, la Confindustria spagnola, pure la Chiesa: il cardinale Ricardo Blazquez, capo dei vescovi, ha rilasciato alla «sua» radio, Rede Cope , un’intervista preoccupatissima: «Gli spagnoli rischiano di smarrire lo spirito della riconciliazione». Ma per i socialisti governare con i postfranchisti del Pp è impossibile. L’idea di Gonzalez e della Diaz è consentire la nascita di un governo dei popolari, che arriveranno primi, con una percentuale attorno al 30%. L’ipotesi più razionale è un accordo tra il Pp e i centristi di Ciudadanos, sempre rampanti nei sondaggi grazie alla freschezza del giovane leader Albert Rivera — catalano ostile all’indipendenza della Catalogna — ma penalizzati nelle urne. I socialisti potrebbe astenersi, a condizione che il primo ministro non sia più Rajoy. Aznar, che lo detesta, darebbe una mano a individuare un’alternativa che per ora non c’è: si parla della vicepremier Soraya Saenz de Santamaria, o della presidente della comunità di Madrid, Cristina Cifuentes. Ma non sempre la Spagna è stata governata dalla ragione.
La legge sulla memoria
Rajoy è gallego come Franco e partecipe della sua «retranca», una forma astuta e zitta di attendismo; per il resto, è un democristiano che ha fatto quello che la Merkel gli ha detto di fare. Nell’infuocato Consiglio europeo sulla Brexit, in cui i leader si sono scannati per un giorno intero sui diritti degli emigrati nel Regno Unito, Rajoy in difesa dei 200 mila spagnoli di Londra ha fatto un solo intervento di 47 parole. Tacere e aspettare. Ora imposta la campagna elettorale contro i sindaci di Podemos appoggiati dai socialisti, Ada Colau a Barcellona e Manuela Carmena a Madrid, che «governano con gli estremisti di Okupa ma ospitano Varufakis negli hotel da 1.200 euro a notte; e soprattutto riaprono ferite cicatrizzate dalla storia».
Nelle due capitali si sta applicando la legge sulla memoria voluta da Zapatero, e si stilano liste di nomi di strade e piazze da cancellare. «A Madrid hanno tolto anche la lapide che commemorava quattro sacerdoti trucidati dai repubblicani — lamenta José Luis Restan, che di Cope è direttore editoriale —. Poi hanno scoperto che non erano franchisti; erano martiri. Così hanno dovuto rimettere la lapide al suo posto. Questo non ha impedito all’assessore alla Cultura, Celia Mayer, di dire che non c’è stata riconciliazione tra gli spagnoli perché non c’è stata giustizia. Ma questi della guerra civile non sanno nulla. Nulla! Sono nati con la democrazia. Pensano che la Spagna sia stata trasformata in un mattatoio solo da Franco e ignorano i massacri degli stalinisti. Il radicalismo culturale di Zapatero ha risvegliato lo spettro della guerra civile, che ora viene evocato da una nuova generazione ancora più radicale. Senza Zapatero non avremmo Podemos. Che non a caso rinnega la transizione e chiede una nuova Carta costituzionale».
Nell’attesa, la sindaca di Madrid dà il benvenuto ai migranti: «Welcome refugees» ha fatto scrivere in inglese sul municipio. Finora però i rifugiati sono appena 124; forse ne arrivano altri 426, ma dopo le elezioni; mentre a Ceuta e a Melilla, città spagnole in Marocco, ai migranti si spara da dietro il filo spinato.
E comunque qualsiasi discorso sulla Spagna, anche il più severo, sarebbe incompleto se non restituisse almeno in parte il calore, la vitalità, il respiro di questo grande Paese: il terzo più visitato al mondo — con il Nord Africa chiuso ai turisti si annuncia un’estate record —, la terza lingua più parlata, e il fascino profondo di una terra latina come la nostra ma più vasta, più silenziosa, più fiera, talora al limite del suicidio.
Aldo Cazzullo
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TERRITORI OCCUPATI. Saranno più di 150 gli stati a votare per il riconoscimento, come Stato osservatore non membro della Palestina dei territori occupati nel 1967, compresa Gerusalemme Est? Lo sapremo, ed anche se non sarà ancora il 194 stato dell’ Onu, si tratta di un passo avanti, non solo simbolico. Certo i palestinesi si sveglieranno oggi ancora con i soldati israeliani sul loro territorio, i coloni aggrediranno i contadini e spianeranno terra e sradicheranno alberi per farsi «un posto al sole». Ma il sentiero è stato aperto.