Il mistero di Omar dal papà filo-Taliban alla deriva jihadista Ma l’Fbi lo rilasciò
ORLANDO «Omar Saddiqui Mateen era già noto all’Fbi dal 2013, figurava su una lista di simpatizzanti dell’Is». L’accusa più grave la lancia la Cnn, poi ripresa e confermata da altre fonti: l’autore della strage di Orlando non sbuca fuori dal nulla, è un altro fiasco tragico della polizia americana. Quasi trentenne, nato a New York da genitori afgani, residente in Florida a Port Saint Lucie (a 160 chilometri da Orlando), sui selfie pubblicati nei social media è pelato, con appena una peluria di barba, gli occhiali. Anche alcuni suoi compagni di lavoro confermano la versione della Cnn, nell’azienda di vigilantes per cui lavorava. Mateen era stato di servizio come guardia giurata perfino per la protezione di edifici governativi, eppure i colleghi avevano raccolto le voci sulle sue simpatie jihadiste. Un ritratto diverso lo dà invece il padre, Saddiqui anche lui, in un’intervista alla Nbc. Saddiqui chiede scusa alle vittime e alle famiglie, si dice addolorato per la strage, ma subito vuole escludere la matrice islamista. «Nulla a che fare con la religione». Nella versione del padre, invece, Omar sarebbe rimasto sconvolto «per avere visto degli uomini che si baciavano tra loro». Un raptus da odio omofobo, dunque. Anche l’ex-moglie, sposata otto anni fa e da cui aveva divorziato nel 2011, contribuisce al ritratto di un giovane squilibrato. Lei parla al Washington Post: «Era violento, psicologicamente instabile. Mi picchiava, anche solo perché il bucato non era pronto, o cose simili ».
Ma già nella serata di domenica i social media sono invasi da una versione alternativa. Che si riconduce soprattutto alla figura del padre, chiamato anche Mir Seddique. Non un islamico moderato, tutt’altro, bensì un simpatizzante dei Taliban afgani. Sul padre le notizie abbondano perché è lui a essere una figura pubblica nella diaspora degli afgani in America. È proprietario di una ong, la Durand Jirgua. Si è “auto-candidato” alla presidenza dell’Afghanistan, lanciando violente invettive contro la classe dirigente attuale, e proclamando la propria simpatia per i Taliban. Poche ore prima che suo figlio desse l’assalto al Pulse Club di Orlando, su Facebook il padre Mir aveva pubblicato un video: riprende se stesso in uniforme militare, invoca l’arresto dei capi di governo afgani. Il padre era ben noto anche perché un ospite frequente nei talkshow di una tv locale della Florida rivolta alla comunità afgana. Sul figlio però, per ben due volte nel 2013 e nel 2014 le indagini dell’Fbi si erano risolte in un buco nell’acqua.
Lo conferma l’agente speciale dell’Fbi Ronald Hopper: «Mateen era stato sui nostri schermi radar. Per due volte lo avevamo interrogato: nel 2013 per alcuni commenti “incendiari” fatti di fronte a colleghi di lavoro; poi ancora nel 2014 perché avevamo individuato un legame tra lui e un altro radicale islamista americano, poi partito in Siria dove divenne un terrorista-suicida. Ma in seguito a quegli interrogatori abbiamo stabilito che lui non rappresentava una minaccia e lo abbiamo rilasciato. Al momento del suo assalto al Pulse Club di Orlando lui non era né indagato né sotto sorveglianza».
Come si era procurato le armi d’assalto con cui ha fatto la strage? La prima risposta della polizia della Florida è questa: Mateen aveva comprato di recente due armi da fuoco, una pistola Glock 17 e un fucile semi-automatico del tipo Ar-15 (simile a un kalashnikov ma di fabbricazione Usa). Quest’ultimo dettaglio è entrato subito nella polemica politica tra Donald Trump e Hillary Clinton. La candidata democratica ha rilanciato l’urgenza di norme più restrittive sulle vendite di armi. Mentre la destra ha reagito con l’argomento caro alla lobby delle armi, la National Rifle Association: «Sarebbe bastato un solo uomo armato dentro quel locale, per fermare il terrorista e scongiurare la strage».
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