L’ultimo appello di Cameron a un paese spaccato a metà

L’ultimo appello di Cameron a un paese spaccato a metà

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LONDRA   Giovedì, le urne: David Cameron è in iperventilazione. In un contraddittorio televisivo di qualche giorno fa lo avevano accusato di essere un Chamberlain – in questo paese una delle offese più gravi che si possano fare a un uomo politico. Lui risponde a tanta infamia facendo appello a una retorica tutta churchilliana, ben sapendo che sono le ultime occasioni per scongiurare una vittoria del Leaveal referendum di domani.

Davanti a Downing Street e con tutta la gravitas di cui è capace – resa più urgente che mai della notte dei lunghi coltelli che i Tories dissidenti gli prospettano anche in caso di vittoria del sì – il premier ha tenuto il discorso decisivo, l’ultimo suo appello a un paese più scosso e diviso che mai di fronte alla prospettiva Brexit. Lo ha fatto davanti Downing Street, il domicilio che occupa da dieci anni e forse ancora non per molto, infischiandosene della regola del silenzio da osservare all’approssimarsi della data del voto.

Nel complesso, un discorso-pastone di quanto va ripetendo da settimane senza particolare entusiasmo, come se sapesse perfettamente che le sue quotazioni di credibilità quando si tratta di Europa sono alquanto basse. La cosa più importante è la nostra sicurezza economica; la Gran Bretagna, grazie alle sue rinegoziazioni, in quest’Unione Europea si trova nel migliore dei mondi possibili: fuori dall’Euro, fuori da Schengen, ma all’interno di un mercato unico del quale sfruttare le molteplici opportunità. Il futuro al di fuori è oscuro; nessuno sa cosa ci attende; quest’Ue è imperfetta e spesso irritante, lo capisco, e a volte fa impazzire anche me, ma che volete farci. E poi, con atteggiamento quasi oracolare: fino adesso, tutto il paese è stato attraversato da profonde e accese discussioni: dopodomani, tutto questo cesserà. Vi ritroverete soli nell’urna a prendere una decisione da cui dipenderà il destino dei vostri figli e nipoti. Pensateci bene.

Poco dopo, Steve Hilton, un suo ex-spin doctor inacidito, ai microfoni della Bbc ha ammesso che Cameron sapeva che gli obiettivi di contenimento dell’immigrazione da lui stabiliti nel manifesto sul quale i conservatori avrebbero vinto le elezioni erano del tutto irrealistici, ma che decise di mantenerli ugualmente.

Intanto, in queste ultime ore si affastellano le dichiarazioni di voto dei ricchi e dei famosi: i coniugi David e Victoria Beckham e Richard Branson si sono detti anima e core per la permanenza. David Beckham ha fatto ricorso – stupendo tutti – a una metafora calcistica per chiarire la sua posizione: «L’Europa è una squadra e deve giocare assieme per vincere». Dove costoro tengano i propri denari è naturalmente tutta un’altra questione.

Il multimilionario Branson, fondatore dell’impero Virgin che vive nel paradiso fiscale delle omonime isole e che non ha diritto di voto in Gran Bretagna, ha lanciato in extremis una campagna per la vittoria del no e dunque per la permanenza. Con lui è allineata buona parte del grande business nazionale, nonostante una pagina pubblicata dal Sun domenica scorsa, in cui 37 amministratori delegati si sono dichiarati a favore della Brexit. Simili le proporzioni nella comunità degli economisti: solo il 5% di quelli interpellati ha sostenuto che le conseguenze economiche di un’uscita sarebbero positive.

Restando in tema di coraggiose discese in campo a difesa dei propri interessi da parte dell’1%, quella forse più dirompente spetta a George Soros, il fund manager che mandò la Bank of England a gambe all’aria nel famigerato mercoledì nero del settembre 1992, facendo profitti per un miliardo di dollari vendendo la sterlina. Scrivendo sul Guardian, Soros ha avvertito che un voto per l’uscita dall’Ue porterebbe a una svalutazione della sterlina anche più profonda di quella che procurò a lui e ai suoi investitori i fanta-dividendi degli anni Novanta facendo uscire la valuta britannica dagli accordi europei di cambio. Se all’epoca la sterlina svalutò del 15% contro il dollaro, questa volta il rischio che si prospetta secondo il finanziere in caso di Brexit è che potrebbe arrivare a svalutarsi del 20% e oltre. Quotata al momento attorno a 1 dollaro e 46, potrebbe scendere fino a 1.15, con mute di speculatori pronti a gettarsi sulla preda. Non solo impoverendo i già poveri e arricchendo i già ricchi dunque, ma portando sostanzialmente la sterlina in parità con l’Euro, un ingresso nell’Eurozona non ortodosso, paventato ed evitato a spada tratta perfino dall’«eurofilo» David Cameron. Tragica ironia.



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