by Luca Celada, il manifesto | 14 Giugno 2016 9:41
Come la strage universitaria di Virginia Tech, come quella degli innocenti alle elementari di Sandy Hook e le jihad «casarecce» di Boston e di San Bernardino, il massacro di Orlando ha sprofondato l’America nell’orrore consueto dei mass shooting. L’attentato del Pulse ha ricalcato nella dinamica quello del Bataclan, ma nella dimensione di odio «di genere» rammenta i delitti Fortuyn e Theo Van Gogh e riassume psicopatie amplificate dall’acrimonia di una campagna elettorale progettata per esacerbare divisioni e psicosi.
Poche ore appena dopo la tragedia Donald Trump era già prorompente sul suo twitter: «Orlando è solo l’inizio», ha scritto perentorio il candidato repubblicano alla Casa bianca. «La nostra leadership è debole e inefficace. Lo ripeto: dobbiamo essere duri». E ancora: «Ringrazio dei complimenti per aver avuto ragione», «Obama si decida a pronunciare le parole ’terrorismo islamico radicale’, se non lo farà deve presentare disonorevoli dimissioni». Per concludere ha ritwittato una sostenitrice: «Donald, per piacere proteggici. Con Hillary presidente saremmo spacciati».
L’immediatezza e la sfrontatezza delle sue affermazioni hanno confermato le previsioni sulle strumentalizzazioni atte a promuovere la narrazione trumpiana. Lo scenario che molti temevano già prima di domenica è un october surprise in cui un evento clamoroso, in autunno, possa venire usato per seminare il panico in una nazione già in precario equilibrio psichico e spingere gli elettori nelle braccia del candidato che promette di proteggerli. Ignorando la provocazione, Obama ha dichiarato: «Sappiamo abbastanza da dire che si è trattato di un atto di terrore e di odio». Lo strascico politico dell’attentato sta nella misura esatta delle parole, nella tassonomia della violenza.
Obama ha preferito focalizzarsi ancora una volta sul flagello dell’accessibilità universale alle armi, ripetendo: «Dobbiamo decidere se è questo il paese che vogliamo veramente essere. E non fare nulla equivale a una decisione». Un affondo al Congresso repubblicano che per difesa del diritto costituzionale ad armarsi e per sudditanza alla lobby armiere, continua a proteggere le norme che permettono a chiunque di acquisire armi da guerra (Mateen lo ha potuto fare pur essendo già attenzionato dall’Fbi e segnalato come squilibrato).
«È stato l’attentato più sanguinoso di sempre», ha detto Hillary Clinton, «e dimostra ancora una volta come le armi da guerra non abbiano ragione di esistere sulle nostre strade». Hillary ha tenuto a menzionare le tre matrici dell’attentato: quella della rivendicazioni «islamiche», quella oggettiva dell’epidemia di armi da fuoco e quella – inconfutabile – dell’omofobia.
Il massacro di ragazzi (in maggioranza ventenni) è avvenuto nella discoteca-centro sociale gay che era punto di riferimento del movimento Lgbt della città sin da quando era stata fondata dall’italoamericana Barbara Poma in memoria del fratello morto di Aids. Il massacro era stato programmato per avere massimo effetto nel fine settimana del Gay pride.
E per giunta sull’altra costa d’America, un uomo armato di un arsenale di armi ed esplosivi è stato arrestato a Santa Monica mentre intendeva raggiungere la parata del Pride di West Hollywood. L’attacco violento alla comunità Lgbt quindi è il dato oggettivo che emerge dalla tragedia ed è utile chiedersi perché. Nella risposta c’entra forse che l’equiparazione matrimoniale degli omosessuali è comunque una pietra miliare dell’era Obama. Che uno dei maggiori contenziosi “culturali” del momento è l’accesso transgender ai bagni pubblici, battaglia su cui molti Stati repubblicani hanno deciso di imbastire una resistenza a oltranza a Washington.
È impossibile sottovalutare poi la scia tossica lasciata dalla dialettica di esclusione e di conflitto di Trump. I suoi attacchi ai messicani e alle donne, ai musulmani e ai giudici con genitori stranieri o a Elizabeth Warren, sfottuta come «Pocahontas» per il suo sangue cherokee, contengono la tacita autorizzazione, anzi l’incitamento implicito, a esternare pregiudizi e risentimenti (non tanto) reconditi. È quello che qui chiamano dogwhistling con riferimento a quei fischietti a ultrasuoni che solo i cani possono udire. Così funzionano i messaggi «in codice» lanciati dal capo ai seguaci e chi vuol capire, capisca.
Questo fischietto da cani è un termine sempre più in uso per descrivere una campagna, quella di Trump, che sta avendo effetti sgretolanti forse irreversibili su una società aperta e multietnica, dove il patto sociale è fondato sulla mediazione politica e dialettica fra le componenti. Ed è impossibile trascurare il ruolo colpevole di generazioni di conservatori e neocon che ben prima di Trump hanno fomentato per interesse le culture wars, la marginalizzazione di stranieri e diversi, quelli che anche Mateen non sopportava. Su questo sfondo sono state essenziali le dichiarazioni di solidarietà, totale e insindacabile, espressa da politici e ancor più da esponenti del mondo dell’arte, del teatro, musica e cinema che hanno sommerso i proclami di improbabili crociate. È in questi termini che si giocheranno in gran parte le elezioni di novembre.
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