Le vele gonfie dei nazionalismi in Europa

by Marco Bascetta, il manifesto | 25 Giugno 2016 9:41

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Ben pochi credevano davvero che sarebbe finita così. Ma, del resto, gli usuali strumenti analitici appaiono irrimediabilmente fuori uso. Le borse e i loro esperti operatori sobbalzano impotenti come il più sprovveduto degli apprendisti stregoni. Tutto torna ad accadere “per la prima volta” e perfino la pedanteria procedurale dell’immane corpus legislativo europeo già si annuncia un indistricabile labirinto, se non un’arena all’interno della quale forze politiche ed economiche si affronteranno a colpi di ricatti, di minacce, astuzie e raggiri. Il fendente politico è stato sferrato e la governance economico-finanziaria già è al lavoro per limitarne i danni e ottimizzarne i profitti.

Un patetico Nigel Farage, leader dell’ultranazionalista Ukip, proclama il trionfo del Leave contro multinazionali e poteri globali. Se non facesse impressione sentire questo torvo figuro proclamare «il giorno dell’indipendenza» britannica, ci sarebbe da farsi una sonora risata. Eppure la favola che uscendo dall’Europa si diano le condizioni per un ripristino della sovranità popolare, nello stato in cui versa, ovunque, la rappresentanza politica, continua a vantare un certo seguito.

Il Regno Unito (mai disunito come dopo questo referendum) godeva in Europa di tutti i privilegi possibili. Al riparo dagli obblighi di Schengen, fuori dall’eurozona, rimborsato di buona parte delle sue “spese europee”, esentato dal garantire integralmente il welfare ai cittadini comunitari ha scelto comunque di abbandonare questa comoda posizione, nonostante le fosche previsioni piovute durante la campagna elettorale.

Nessun solido argomento razionale poteva essere schierato a favore del Leave, eppure la sia pur risicata maggioranza dei cittadini britannici ha scelto di voltare le spalle all’Europa.
La riuscita Brexit è in un certo senso il contrario della mancata Grexit. La Gran Bretagna lascia l’Europa, dopo esserne stata blandita e favorita. La Grecia decide di rimanervi nonostante le sanguinose imposizioni subite e dopo una strenua battaglia maggioritaria (e tuttavia perdente) contro le ricette economiche della Troika. Si è trattato solo di autolesionismo o di paura? Forse Tsipras poteva rischiare di più nel suo braccio di ferro con Bruxelles (e forse ora può e deve aprirsi una nuova stagione), ma in qualche modo ci fu la consapevolezza che isolazionismo e autarchia avrebbero potuto condurre a forme inquietanti di nazionalismo e che Atene, pur piegata, aveva comunque messo in scena una diversa possibilità in e per l’Europa, lasciato intravedere una breccia. Ma è proprio lì, in quello scontro di un anno fa, che la governance europea e le miserevoli socialdemocrazie che ne assecondavano scodinzolanti le scelte, cominciavano a mettere in circolo i germi che lavorano alla disgregazione dell’Unione.

Gli inglesi, torniamo a chiamarli così come la geografia del voto li ha circoscritti, decidono di abbandonare l’Unione con le peggiori ragioni possibili, ancor peggiori degli stessi concreti effetti del Brexit: un tronfio e arrogante orgoglio nazionale, un improbabile “Noi” nel paese più classista d’Europa. Thatcher non si faceva certo mettere i piedi in testa dall’Europa, ma non esitava a metterli lei in testa alla working class britannica. Non a caso sono le destre olandesi, danesi, finlandesi fino al Front national di Marine Le Pen, nonché l’insignificante Matteo Salvini ad applaudire queste ragioni e a minacciare un’alluvione di referendum.

Sono soprattutto i poveri dei paesi ricchi ad essere sedotti da queste sirene, convinti che siano i membri meno affluenti dell’Unione a sottrarre loro il bengodi che il patrio Pil dovrebbe garantire. Se non altro i greci avevano capito che erano gli armatori e un’oligarchia corrotta a divorare il grosso della torta. Con la complicità, finché è stato possibile, di Berlino e di Bruxelles.

Ora, i vertici europei fanno un po’ la voce grossa, ma in sostanza adottano una linea assai prudente. Continueremo ad andare avanti in 27, assicura il presidente della Commissione Junker. Ma andare avanti come se niente fosse, con l’aria che tira, è una scelta autolesionista se non suicida. È ormai chiaro a tutti che sono proprio la rigidità dottrinaria della governance europea e gli interessi finanziari che la ispirano a gonfiare le vele dei nazionalismi manifesti come, per altro verso, di quelli incistati nel governo dell’Unione. Che quest’ultimo debba essere sottoposto a una pressione popolare di segno contrario a quella che ha condotto Londra fuori dall’Unione, mi sembra a questo punto, assolutamente evidente. Se davvero Hollande volesse fare qualcosa per l’Europa sottraendo terreno al Front National, per fare un solo esempio, dovrebbe fare marcia indietro su quella loi travail che gli ha scatenato contro un imponente movimento e larga parte dei francesi.

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