by Giuseppe Sarcina, Corriere della Sera | 14 Giugno 2016 9:47
ORLANDO (Florida) È il momento del lutto, delle bandiere a mezz’asta. Ma per due comunità, folte e visibili, è anche il momento della paura. In Avenue Mills, non lontano dal club «Pulse», il locale dove sabato notte sono state uccise 49 persone e ferite altre 53, svetta un drappo arcobaleno. Due vetrate danno sulla strada. Qualcuno ha deposto un mazzo di fiori. È il «Lgbt Center of Control» della Florida, il punto di riferimento di lesbiche, gay, bisessuali e transgender. L’atmosfera è decisamente accogliente: bibite, caffè, frutta e brioche a disposizione di tutti. Robert Domenico, 40 anni, fa parte del «board dei direttori». Spiega che questo posto è nato 35 anni fa: «È la più antica struttura nello Stato della Florida». Racconta di come, subito dopo l’attacco di sabato sera, siano arrivate almeno 200 persone per aiutare i sopravvissuti al massacro, per sostenere psicologicamente e, se serve, anche economicamente, le famiglie. Poi, piano piano arriva al punto: «Sì, inutile nasconderlo, adesso abbiamo paura. Non ci saremmo mai aspettati di diventare un target per i terroristi, ma ora abbiamo chiesto alla polizia di proteggerci e noi stessi stiamo predisponendo un servizio di sicurezza».
Verso l’una di pomeriggio l’imam Muhammad Musri si presenta sul luogo della strage, ancora sigillato dalla polizia. Musri, 49 anni, è il presidente dell’American Islam, il rappresentante della numerosa popolazione musulmana. Comincia prendendo le distanze dal «folle killer», sottolinea come «il vero islam non c’entri niente con quello che è successo». Porta la sua solidarietà ai gay e alle lesbiche: «La mia religione condanna questi comportamenti, ma questo non significa che un musulmano abbia il diritto di uccidere qualcuno. Queste sono scelte personali e sarà solo Dio a giudicarle». Ma poi le parole dell’imam diventano molto simili a quelle di Robert Domenico: «Sono molto preoccupato. Da sabato abbiamo ricevuto centinaia di messaggi minacciosi. Sono segnali diversi dal passato. Prima erano soprattutto insulti, ma le cose cambiano se cominciano a dirti: sappiamo dove abiti, sappiamo a che ora esci, conosciamo tutto della tua famiglia. Stiamo lavorando con la polizia e abbiamo deciso di assumere agenti privati per rafforzare la sicurezza».
Ecco, dunque, il primo effetto, psicologico, sociale e politico dei colpi sparati da Omar Mateen. Gli omosessuali e i musulmani di Orlando si sentono in grave pericolo. Toccherà ora al sindaco della città, il democratico Buddy Dyer, al governatore repubblicano Rick Scott, fino all’amministrazione di Barack Obama evitare che questa sensazione di vulnerabilità si diffonda nel resto del Paese. Negli Stati Uniti vivono circa un milione e mezzo di gay e di lesbiche, mentre i musulmani sono quasi 2 milioni e mezzo.
Sulla paura galleggia tutto il resto. Per esempio l’angoscia di Barbara Poma, 45 anni, la proprietaria del «Pulse». Era in vacanza in Messico ed è tornata di corsa. Ha scritto sul sito del club: «Come tutti sono devastata, il Pulse è sempre stato un luogo di amore». Aveva aperto il locale in ricordo del fratello, morto per Aids.
Sulla paura galleggia anche lo sconforto di un giovane uomo come Angel Garmendis, 35 anni, che lavora in un reparto dell’Orlando Regional Medical Center. Sabato notte era di turno e ha visto passare per il pronto soccorso quattro suoi amici che avevano trascorso la serata al «Pulse». Ieri alle due del pomeriggio si aggirava in una strada laterale, fuori dalla ressa di telecamere, in attesa di intercettare il governatore in visita alle famiglie accolte nel Regional Medical Center. Molti dei feriti sono in gravi condizioni: il personale degli ospedali li ha blindati, vietando i contatti con i giornalisti. Angel, però, ora è fuori servizio, si è messo la sua canottiera nera, «in segno di lutto», con grandi stelle bianche. Accetta di scambiare due parole: «Solo domenica mattina all’alba, quando ho smontato, mi hanno detto che altri 11 miei amici erano morti in quel club. Così, nel modo più assurdo».
La risposta di Orlando è impressionante. Almeno duemila cittadini si sono subito messi in fila per donare il sangue. Per legge i gay non possono essere accettati, a meno che dichiarino di non aver avuto rapporti sessuali nel corso dell’ultimo anno. Ma Russell Walker, attivista dell’organizzazione no profit «Hope & Help», racconta che per questa volta hanno fatto un’eccezione: nessuno è stato respinto dal centro di raccolta «One Blood», mentre la Croce Rossa sta facendo affluire sangue da altri Stati. Ci sono psicologi in attesa un po’ ovunque. La First Unitarian Church ha offerto una saletta all’associazione «Two Spirits», vicina al mondo Lgbt. Ma parenti e amici delle vittime si sono come ritirati dai riflettori e dagli spazi pubblici. Il dolore ha bisogno anche di solitudine.
Giuseppe Sarcina
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