Lavoro, la «segregazione» all’italiana
Con il ricatto della Bossi Fini sempre pendente come una spada di Damocle sul proprio futuro, gli immigrati in Italia hanno affrontato gli anni della grande crisi caricandosi sulle spalle più di un peso, e riuscendo comunque a produrre sempre più ricchezza.
Pagando però prezzi molto salati. A partire dal salario, più basso di circa un quarto rispetto allo stipendio dei lavoratori italiani (-24,2%), con un differenziale che arriva al -27,6% per le donne.
E con, in parallelo, la conferma di una vera e propria segregazione occupazionale che, al di là del titolo di studio, li porta invariabilmente a lavorare nei settori «a basso valore aggiunto»: dai servizi alla persona all’agricoltura, passando per il comparto delle costruzioni e gli impieghi in alberghi e ristoranti. Settori dove la concorrenza con l’offerta di lavoro degli autoctoni – al di là dei deliri leghisti – risulta marginale. E dove comunque gli immigrati sono stati i primi ad essere sacrificati nel momento in cui la crisi azzannava.
È nitida la fotografia che emerge dallo studio «Le conseguenze della crisi sul lavoro degli immigrati in Italia», realizzato dalla Fondazione Di Vittorio della Cgil nell’ambito delle attività dell’Osservatorio sulle migrazioni, che ha analizzato le condizioni dei lavoratori stranieri occupati in Italia nel quinquennio 2011-2015.
«Dal punto di vista della “segregazione occupazionale” non ci sono novità – osserva Sally Kane, responsabile del Dipartimento politiche immigrazione della Cgil – gli immigrati fanno perlopiù i lavori più umili. Ma fanno anche quelli più pericolosi, basta vedere i dati degli infortuni sul lavoro.Resta confermato anche che guadagnano meno, a parità di impiego, degli autoctoni. Piuttosto, con la crisi, sono stati loro i primi a essere espulsi dal mercato del lavoro – spiega Kane – mentre là dove l’occupazione è stata mantenuta, come nell’agricoltura, è aumentato il lavoro nero, ed è aumentato quindi il differenziale retributivo».
Pur contribuendo sempre di più a produrre ricchezza (arrivata oggi all’8,6% del Pil nazionale), nella pratica un lavoratore immigrato dipendente a tempo pieno guadagna in media 362 euro netti meno di un italiano: tra gli uomini -350 euro, e tra le donne -385 euro.
Quanto al tasso di disoccupazione, nel 2015 è stato più alto di quasi cinque punti rispetto alla forza lavoro autoctona (16,2% contro 11,4%, vedi sotto). Così come sono aumentate precarietà e part-time involontario.
«Non solo – puntualizza Sally Kane – dalle analisi di Emanuele Galossi, un ricercatore molto bravo, emerge come ad esempio nel settore della logistica merci, che attira molti immigrati, con i cambi di appalto i lavoratori siano costretti ad accettare livelli contrattuali inferiori, o anche diminuzioni di orario di lavoro. Di qui le minori retribuzioni, accettate per forza di cose da chi non può permettersi, a causa della Bossi Fini, di perdere l’impiego».
Nella ricerca si segnala come l’incidenza degli immigrati sul totale degli occupati sia arrivata comunque al 10,5%, con un aumento dell’1,5% (+329 mila unità).
Al tempo stesso il tasso di disoccupazione nel 2015 è stato più alto di quasi cinque punti percentuali rispetto a quello relativo alla forza lavoro italiana (16,2% contro 11,4%). È stato evidenziato peraltro come il tasso di sofferenza occupazionale – un indicatore che comprende disoccupati, cassintegrati e scoraggiati disponibili a lavorare – degli immigrati è stato nel 2015 pari al 15% (604 mila persone), 3,2% sopra quello italiano. Mentre il tasso di disagio (precari e part time involontari sul totale degli occupati di 15-64 anni) è arrivato al 30% (706 mila persone), quasi il doppio di quello italiano.
Infine il tema delle professioni e delle qualifiche: gli immigrati sono occupati nella maggior parte dei casi con mansioni poco qualificate, nonostante che oltre la metà di loro risieda in Italia da oltre dieci anni.
Le prime dieci professioni in cui sono impiegati (fra cui pulizie, servizi domestici, facchini, braccianti, ecc.) coprono quasi due terzi dell’occupazione straniera (63%) contro poco più di un quinto di quella italiana (21%).
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