L’ascensore sociale non sale più
L’ascensore sociale non sale più anche perché sono diminuiti i piani alti. Il blocco della mobilità sociale è stato individuato da tempo come una delle principali manifestazioni della disuguaglianza italiana ed è anche arcinoto l’effetto che ha nell’allargare il gap generazionale. Gli studiosi concordano che la causa prima dell’ascensore bloccato risieda nella malattia della bassa crescita che affligge da circa un ventennio l’economia italiana. L’ultimo rapporto Istat ci ha dato anche qualche elemento in più sottolineando lo stretto legame che intercorre tra mancata mobilità e disuguaglianza perché un’economia stagnante tende a perpetuare le condizioni acquisite e quindi esalta il peso di quella che viene chiamata «ereditarietà economica». La famiglia nella quale si nasce condiziona fortemente il successivo ciclo di studi e di lavoro e causa la «trasmissione intergenerazionale delle condizioni economiche» e l’Italia risulta tra i Paesi Ue più conservatori. La rendita di posizione dei cittadini con status sociale di partenza elevato (genitore laureato e manager, casa di proprietà) rispetto a quelli con status di partenza basso (casa in affitto e genitori con bassa istruzione) è più ridotta in Francia (37%) e in Danimarca (39%) mentre è molto forte nel Regno Unito (79%), Italia (63%) e Spagna (51%). E dove la rendita è più alta il merito conta meno.
Se questo, con gli ultimi aggiornamenti, è il quadro delle cose che sappiamo in materia di mobilità sociale i lavori di Antonio Schizzerotto, docente all’Università di Trento, ci permettono di andare oltre. Sostiene il sociologo che nel nostro Paese nei primi 60 anni del Novecento le dimensioni della classe superiore — imprenditori, liberi professionisti, dirigenti e occupazioni intellettuali svolte alle dipendenze di terzi — sono rimaste molto contenute. Successivamente e per altri 40 anni invece si sono espanse a ritmi sostenuti. È solo nell’ultimo decennio che questa crescita si è arrestata ed è iniziata una discesa. L’ascensore non può arrivare ai piani alti perché ce ne sono pochi o comunque meno rispetto alle aspettative dei potenziali passeggeri. Il risultato è che la mobilità ascendente dei nati tra il 1970 e il 1985 è stata di cinque punti più bassa rispetto ai loro fratelli maggiori nati tra il 1954 e il ’69 e la mobilità discendente è cresciuta di 7 punti. Per arrivare a questi numeri gli studiosi lavorano a lungo su un’ampia serie di indagini campionarie e di conseguenza registrano spostamenti di lungo periodo, ma se potessimo immettere in questo schema i millennials è molto probabile che la forbice si allargherebbe ancora di più. Le cause storiche della carenza di piani alti risalgono ad alcune peculiarità della nostra economia che pur avendo vissuto «un incisivo e lungo processo di industrializzazione» non è riuscito a dar vita a un numero sufficienti di medie e grandi imprese e ha vissuto una «terziarizzazione si è concentrata su settori marginali e poco innovativi». Il risultato è quello che Schizzerotto definisce «un fenomeno di saturazione» dei posti disponibili nelle classi superiori e la riduzione delle chance di mobilità viene pagata interamente dalle nuove generazioni. Non solo dai figli di operai ma anche dalla prole degli imprenditori, dei liberi professionisti, dei dirigenti e dei colletti bianchi. Anche costoro oggi per rimanere nelle classi di origine fanno più fatica dei fratelli maggiori e dei padri quando anche loro avevano un’età compresa tra i 20-35 anni. Stiamo rischiando di entrare in un regime di mobilità discendente: l’ascensore scende invece di salire e a segnalare il danno sono soprattutto i figli degli impiegati direttivi e di concetto che, oltre a pagare il blocco, devono sopportare i costi derivanti dal venir meno delle protezioni dai pericoli di discesa sociale.
Se mettiamo sotto osservazione il sistema delle imprese, per capire a monte i fenomeni fin qui descritti, viene fuori che il primo fattore negativo risiede nella struttura delle piccole imprese focalizzate attorno alla figura del proprietario, senza un’adeguata articolazione dirigenziale e delle competenze. Sono poche le Pmi che hanno almeno un dirigente. Il secondo fattore rimanda alle dinamiche della globalizzazione e al fenomeno delle concentrazioni societarie. Spiega Stefano Scabbio, amministratore delegato di Manpower: «Le fusioni che riguardano compagnie operanti nello stesso business comportano una riduzione da 4 a 1 delle posizioni per top e middle manager. Basta pensare al settore bancario per averne una conferma immediata. In Europa le cose vanno così e sono i processi di consolidamento a fare da padroni, in altre aree accanto alle concentrazioni si sviluppano anche nuove opportunità e business che non conoscevamo». Aggiunge Max Fiani, partner di Kpmg, società che monitora il mercato delle acquisizioni: «Le aree professionali nelle quali si taglia sono finanza, amministrazione e controllo, si salvano il commerciale e la logistica. Ci sono stati anche di recente casi nell’industria del cemento e negli elettrodomestici che hanno portato a razionalizzare siti produttivi e headquarter». E le riduzioni di posizioni pregiate è stimato tra il 20 e il 30%. C’è poi da tener presente che in caso di shopping di nostre imprese da parte di multinazionali c’è il rischio di spostamenti del quartier generale fuori dall’Italia e in questi casi è chiaro — fa notare Fiani — che avere lo stesso passaporto dell’azionista dà maggiori chance di conservare il posto. Gli effetti di queste operazioni interessano a catena anche la filiera di fornitura dei servizi professionali che si accentra sulla casa madre. Tutti questi movimenti vanno nella stessa direzione perché fanno diminuire le posizioni alte a disposizione dei giovani manager italiani.
Per completare il quadro occorre tenere presente che gli anni della Grande Crisi sono stati anche anni di profonde ristrutturazioni che hanno reso le organizzazioni aziendali più piatte. Dal 2008 a fine 2014, secondo dati diffusi da Manageritalia, i dirigenti del settore privato italiano sono diminuiti del 5% a fronte però di un aumento consistente del numero dei quadri, incremento che almeno in parte copre un trend di mobilità discendente. Commenta l’economista industriale Enzo Rullani: «Ci mancano le piramidi, abbiamo tante unità di base e poco ceto medio dirigenziale. O diventi imprenditore o hai poche chance di promozione perché resti escluso da macchine organizzative rigide». Ma tutto ciò avviene secondo Rullani nel lavoro esecutivo non in quello «generativo» reso possibile dall’Internet 4.0. «Può partire una nuova mobilità sociale che non si basa più sulla cooptazione dall’alto ma sullo spirito di intraprendenza. Le organizzazioni avranno crescente bisogno di persone che sappiano risolvere i problemi e siano disposte a investire su di sé e a incorporare il rischio del fallimento». Da qui può ripartire la meritocrazia, si tratta di vedere però quanti posti sarà capace di mettere in palio.
Dario Di Vico
(3 – segue)
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