La retorica incendiaria di Trump nel laboratorio sociale d’America
Non è un caso se in California i comizi di Donald Trump hanno scatenato un nuova ondata di proteste, se possibile ancor più diffuse delle precedenti. Siamo infatti in una parte d’America dove le sortite razziste del miliardario colpiscono una fetta considerevole della popolazione.
Nel Golden State l’egemonia wasp è tramontata da tempo e si è compiuto «il sorpasso» tra i latinos e i bianchi. Difficile perciò pensare che la retorica incendiaria sui messicani «criminali e stupratori» possa passare inosservata. Ma c’é anche dell’altro.
Si dimentica infatti con troppa facilità che in questa terra di frontiera, dove vive anche la più grande comunità asiatica degli Usa, il razzismo è di casa da sempre, ha scandito lo sviluppo stesso della regione, fino a definire una sorta di modello sociale e politico che riecheggia oggi nelle proposte del tycoon repubblicano. Con la differenza che se nel deep south post schiavista «il nemico» sono rimasti gli afroamericani, qui hanno avuto via via il volto di cinesi, giapponesi, ispanici e soprattutto messicani.
La città di Los Angeles che ha fatto da scenario alle più lunghe e violente rivolte urbane, e razziali, della storia degli Usa, quella di Watts del 1965 e quella del 1992, entrambe scoppiate dopo l’arresto e il pestaggio di un nero da parte della polizia, già nel 1943 fu teatro di un vero e proprio pogrom contro gli ispanici, i cosiddetti Zoot Suit Riots, su cui si riversò il risentimento e le frustrazioni di migliaia di marinai e soldati in attesa di partire per il fronte. Una pagina di storia terribile e spesso occultata cui James Ellroy ha restituito dignità nelle prime pagine del suo celebre Dalia nera.
Ma la California, che ha ispirato il politologo di Harvard Samuel Huntington in quella che è la sua seconda profezia di sventura, dopo il noto The Clash of Civilizations, quel Who Are We? pubblicato nel 2004 e che denunciava «la minaccia» portata dagli ispanici all’identità americana, è stata soprattutto il primo laboratorio sociale e politico di massa di quelle, spesso sostenute anche dai suprematisti bianchi, tornate d’attualità in questi ultimi mesi. La più nota in questo senso fu la Proposition 187, una sorta di referendum popolare che nel 1994 intendeva negare i diritti e l’accesso ai servizi del welfare ai cosiddetti «immigrati irregolari» ma anche, incredibilmente per un paese in cui vige lo jus soli, ai loro figli.
Presentata da un cartello di gruppi e personalità riunite sotto la sigla di «Save Our State», Salva il tuo Stato, di cui facevano parte alcuni parlamentari repubblicani e l’associazione California Coalition for Immigration Reform, guidata da Barbara Coe, figura di riferimento dell’estrema destra che definiva «selvaggi» i messicani, la proposta godeva però soprattutto del pieno appoggio del governatore dello Stato, Pete Wilson, un repubblicano molto legato all’ex presidente Ronald Reagan. Malgrado la sua apparente follia, la 187 passò con il 58,9% dei voti, anche se nel giro di un paio d’anni sarebbe stata resa inapplicabile da una serie di pronunciamenti dei giudici federali.
Servirà però da base per una lunga serie di analoghe leggi di iniziativa popolare che fino agli anni della presidenza di George W. Bush hanno cercato di ridurre i programmi dell’«Affermative action» in favore delle minoranze o addirittura l’insegnamento bilingue – inglese e spagnolo – nelle scuole pubbliche californiane. Niente come questa drammatica eredità del razzismo in California sembra rendere perciò tutta la minaccia che è insita nelle parole di Donald Trump quando sostiene di voler «rendere di nuovo grande l’America»: l’«età dell’oro» a cui pensa, non solo da queste parti, ha significato violenza e discriminazioni.
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