In Italia con il Jobs Act in aumento le famiglie di lavoratori poveri
C’erano una volta gli obiettivi inclusivi dell’agenda Europa 2020 della strategia Ue per uscire dalla crisi con società più smart e stabili dal punto di vista sociale ed economico. Ciò che emerge dal rapporto del centro di ricerca Isfol (che è pubblico, dipende dal ministero del Lavoro) sugli effetti del Jobs Act sulle dinamiche dei redditi e del mercato del lavoro è presto detto: l’area del disagio sociale e economico negli ultimi due anni in Italia è cresciuta, non diminuita. In base al nutrito campione della ricerca Isfol Plus, per conto della Ue, i nuclei familiari che non sono in grado di far fronte a una spesa imprevista di 300 euro sono il 73 per cento del campione e il 36 per cento che ha questo plafond di spesa eccezionale comunque afferma di non potersi permettere una spesa necessaria aggiuntiva di 800 euro.
Il fatto eclatante è che non si tratta di poveri o di anziani con pensioni al minimo, ma di famiglie dove entrano uno o due redditi da lavoro. E questo significa che le dinamiche di segmentazione, frammentazione, aumento dei contratti atipici hanno provocato salari così bassi da annidare la povertà anche tra chi un salario ce l’ha ma così basso. L’intuizione non è nuovissima, già il Cnel in un seminario del 2014 aveva segnalato: «l’Italia presenta tassi di work in poverty maggiori della media europea e in aumento nel 2011». Leggendo il rapporto Isfol – un dossier di 300 pagine scaricabile dal sito – si può ricostruire come siamo arrivati a questo dato sconfortante, tassello per tassello e dati alla mano.
C’è da dire che il rapporto Isfol Plus era atteso a dicembre, quando infuriavano le polemiche sulle «magnifiche sorti e progressive» – o bugie – del Jobs Act. E infatti è uscito ieri ma è datato dicembre 2015. È stato dunque congelato per sei mesi, nei quali – tra l’altro – lo stesso istituto di ricerca ha trovato una nuova collocazione, dopo aver rischiato di essere cancellato dal premier Renzi con un tratto di penna come ente inutile.
Ora si dovrà probabilmente occupare di politiche attive per il lavoro attraverso l’Anpal e la ricentralizzazione delle competenze ora disperse nei – poco utili – centri per l’impiego territoriali. Ma al di là del ritardo decennale dell’Italia proprio sulle politiche per il lavoro, si dovrà attendere l’esito della riforma costituzionale – quella messa a referendum a ottobre – per una definizione compiuta delle competenze.
Nel frattempo è uscito questo pamphlet che mette nero su bianco un’analisi organica e di dettaglio sull’impatto sociale dell’ultima riforma del mercato del lavoro – il Jobs act appunto – in rapporto agli obiettivi fissati dall’agenda europea e agli studi di settore, dallo Svimez al centro studi Adapt -, confrontando dati Inps, Istat e facendo confronti europei.
Guardando grafici e tabelle e pensando agli annunci di Renzi è indicativo l’istogramma relativo al tasso di occupati. L’Italia risulta terzultima sulla scala Eurostat – peggio fanno solo Ungheria e Malta – in quanto a popolazione occupata in età lavorativa ma soprattutto – insieme a Grecia e Spagna – ha una dinamica in calo dal 2011 al 2014.
Gli otto decreti del Jobs act sono del 2015, e l’anno prima viene segnalato un anno «di attesa»dei datori di lavoro sulle assunzioni. Quindi si segnalano un paio di trimestri – i primi due del 2015 – di ripresa dell’occupazione, sempre dello zero virgola, e si conclude che «è da vedere» se alla conclusione degli incentivi per il contratto unico a tutele crescenti rimarrà la «lieve propensione» a utilizzare il nuovo strumento, che comunque ha approfondito la «dualità del mercato del lavoro tra garantiti dai vecchi contratti a tempo indeterminato (con articolo 18) e nuovi assunti col Jobs act.
I giovani sono i più penalizzati, da tutti i punti di vista, incluso la capacità di autonomia familiare e le scelte procreative. Ma per i bambini non si prevede un futuro migliore: l’abbandono scolastico nel 2014 è rimasto al 15%.
«L’indebolimento prolungato dello Stato sociale ha ridotto la fiducia e il credito delle istituzioni pubbliche: non lo dice l’Isfol, ma la Commissione europea.
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