by Roberto Ciccarelli, il manifesto | 18 Giugno 2016 10:01
Nel primo trimestre 2016: Ue +1,7, da noi -0,5%. Record negativo anche del costo del lavoro: è calato dell’1,5% mentre in Europa è aumentato dell’1,7%. Si aggrava una costante degli ultimi 25 anni
La frammentazione delle forme contrattuali dipendenti e la «voucherizzazione» del lavoro precario non sono gli unici obiettivi del Jobs Act. Il rapporto Eurostat sul costo del lavoro pubblicato ieri ha reso noto un altro aspetto della riforma del lavoro italiana: la deflazione salariale. Nel primo trimestre 2016, dunque con il Jobs Act a pieno regime e con gli sgravi contributivi alle imprese diminuiti del 40%, la retribuzione oraria in Italia è diminuita dello 0,5%, mentre nei 28 paesi dell’Unione Europea è aumentata in media dell’1,7%. Nell’ultimo trimestre 2015 era aumentato del 2%.
L’Italia è l’unico paese, tra i principali dell’Unione Europea, dove i salari calano. In Germania, invece, aumentano del 3,2%, in Francia dell’1,6%, in Gran Bretagna dello 0,2%. Il calo è inferiore nel settore pubblico (-0,1%) che non è stato intaccato dal Jobs Act ma dove i contratti non vengono rinnovati da anni; ed è stato più feroce nel settore privato dove si registra una diminuzione dello 0,7%. Il settore dove la tendenza si è fatta sentire di più è stato l’industria dove il calo è stato maggiore sia in rapporto al costo del lavoro nel suo complesso (-2,6%, contro il +1,9% dei 28 paesi dell’Unione Europea), sia per il salario per ora lavorata (-1,4% contro il +2% nell’Ue). Nel settore edilizio il calo è stato del 3,1% del costo del lavoro e dell’8% dei «costi non salariali» (-0,9%). Nei servizi il calo del salario orario è stato più contenuto (0,2, +1,5% in Ue), mentre il costo del lavoro complessivo segna una diminuzione dell’1,6%.
Gli sgravi contributivi sui neo-assunti con il «contratto a tutele crescenti» del Jobs Act (la 48esima forma di precariato in Italia) concessi dal governo Renzi alle imprese hanno fatto registrare una diminuzione soprattutto dei «costi non salariali» (-3,9%). Questo dato va considerato insieme al nuovo crollo dei contratti a tempo indeterminato nel primo quadrimestre 2016 registrato mercoledì dall’Inps: -35%. Gli sgravi finiscono, ma lasciano sul campo i bassi salari, oltre alla libertà di licenziare e demansionare i lavoratori. Chi esce dal perimetro del salariato precarizzato, può continuare a lavorare con i voucher: +43,1% (43,7 milioni). Per il lavoro povero e «grigio» non esistono tutele e garanzie universali come il reddito minimo. L’immagine del lavoro in Italia è questa.
Il nostro paese è in contro-tendenza anche per quanto riguarda l’intero costo del lavoro che cala dell’1,5% mentre in Europa aumenta dell’1,7%. Nell’ultimo trimestre del 2015 questo valore era aumentato dell’1,3% In Italia, invece, la riduzione è stata addirittura del 2,1%. L’unico paese europeo che può gareggiare con questo record è Cipro dove il costo del lavoro è diminuito dello 0,5% nel periodo corrispondente. Nel complesso il costo del lavoro nel settore pubblico è diminuito dello 0,4%. Nel resto d’Europa è invece aumentato dell’1,5%.
«Dopo avere propagandato il calo delle tasse, ci attendiamo che il governo commenti anche il calo dei salari» ha ironizzato il segretario confederale della Cgil, Franco Martini. Di commenti, invece, nemmeno l’ombra. «I salari devono tornare a crescere – ha continuato Martini – per farlo ci vogliono investimenti pubblici e privati, rilanciare la domanda interna sostenendo i salari di chi lavora e le pensioni». Renzi, invece, non rinnova i contratti scaduti a 8 milioni di dipendenti e sostituisce gli aumenti mancanti con il bonus Irpef degli 80 euro. «Senza un rilancio dei contratti – ha aggiunto Carmelo Barbagallo, segretario Uil – le imprese che producono beni e servizi per il mercato interno non venderanno i loro prodotti perché non c’è nessuno che li acquista. Governo e imprenditori: quando lo capiranno?». «La questione salariale è fondamentale per uscire dalla deflazione» aggiunge Gigi Petteni, segretario confederale Cisl.
«Queste politiche hanno innescato un processo di deflazione salariale nell’illusione di rilanciare la competitività del sistema produttivo italiano» commenta Alfredo D’Attorre (Sinistra Italiana). «Motivo in più per firmare i referendum contro il Jobs Act e appoggiare le manifestazioni per i rinnovi contrattuali» aggiunge Paolo Ferrero e Roberta Fantozzi (Rifondazione Comunista).
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