I bambini perduti della Valle della Bekaa

I bambini perduti della Valle della Bekaa

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Zahle (Libano)  «Che cosa sono queste, le spalle?», chiede l’educatore indicandosi le cosce. «Nooooo!». «E questi come si chiamano?», ora punta le palpebre. «Occhiiiii!». «E se mi sposto qui?». «Nasoooo!». Sembra un gioco, si ride appena. Trenta bambini, due operatori sociali, una lavagna con il disegno di un maschio e di una femmina, una croce cerchiata tra le gambe: «Se vi toccano qui, non va bene; se un adulto vuole portarvi in bagno con lui, non ci andate». Lezione di difesa dagli abusi nel mezzo della Valle della Bekaa, tra i piccoli siriani come Ahmed, 11 anni da Aleppo, Noura, 9 anni, dalla periferia di Damasco, l’attenzione flebile, lo sguardo spento, i lineamenti già vecchi. I bambini più tristi che si possano immaginare.L’Unicef col finanziamento dell’Unione europea (114,45 milioni di euro nel triennio 2013-16) e l’aiuto di Ong locali tiene aperto qui un centro che ne soccorre a centinaia. Traumatizzati dalla guerra, malnutriti, ammalati per l’acqua sporca e le scarse condizioni d’igiene. E poi privati di un’istruzione, costretti a lavorare, abusati, venduti. Una generazione perduta tra i campi di grano, di tabacco, gli aranceti, le vigne. Per ogni raccolto una stagione, da marzo a ottobre. «Riusciamo a tenerli a scuola fino ai dieci, undici anni», dice un’educatrice. Poi in molti scompaiono, sfruttati come contadini da 7.000 lire libanesi, poco più di quattro euro per 12 ore al giorno.

Nella valle, prima della guerra, erano gli adulti a cercare lavoro, gli stagionali siriani che varcavano una frontiera inesistente, venti chilometri più in là, e venivano ad arare e raccogliere. Adesso che su questa terra sono accampati a centinaia di migliaia — 1.048.000 ufficialmente, di cui 558 mila minori, dal 2015 Beirut ha smesso di concedere visti chiedendo all’Unhcr di non contarli più, la stima è di un milione e mezzo, che con i palestinesi rifugiati da sessant’anni arrivano a due milioni — in questa condizione precaria e «abusiva» è il proprietario a dettare legge, fissando salari da bambini, metà prezzo. E i genitori, senza regolare permesso di soggiorno (che al rinnovo costa 200 irraggiungibili dollari) o in alternativa con un impegno scritto a non lavorare (per non «portar via il lavoro» ai locali), a zappare mandano i figli.

Quanti? Nel limbo libanese i numeri si confondono e si sovrappongono. Il dato che segnala l’Unicef è impressionante: 1,4 milioni di bambini «vulnerabili», «a rischio di esclusione e sfruttamento», contando 800 mila rifugiati siriani; 470 mila libanesi; 130 mila palestinesi. Per la gran parte concentrati nella Bekaa, che era già la regione più derelitta del Paese.

«Vulnerabili» nel peggiore dei modi. Pure le statistiche locali sono avvilenti. Una ricerca dell’Ong Kafa prima della guerra stimava 1 su 6 i bambini vittime di abusi in Libano. Al Centro di Zahle empiricamente contano ogni mese una quindicina di casi, che avranno poi bisogno di speciale assistenza psicologica. Ma tanti altri sono spersi per la vallata, chiusi tra i teloni cerati dei campi o negli appartamenti fatiscenti dei villaggi. Bambini che non esistono perché spesso non sono stati registrati alla nascita (almeno 50 mila nel 2015 secondo l’Unhcr). I cui genitori ufficialmente non si trovano in Libano e non possono muoversi assediati dai check-point e dalla paura di essere scoperti. Irregolari, nascosti, ricattabili.

In una struttura poco distante dell’Unrwa (agenzia dell’Onu per i rifugiati palestinesi drammaticamente a corto di fondi) un profugo siriano, Salah El Radif, 53 anni, racconta di essere stato un costruttore a Damasco, di aver avuto abbastanza soldi per far arrivare il figlio in Norvegia, ma di aver adesso consumato tutti i risparmi. I suoi bambini sono un’eccezione. Maschi e femmine vanno in questa scuola ben tenuta (ancora grazie ai fondi Ue) con la maestra Hadieh che mostra le foto degli alunni eccellenti incorniciate da un cuore o raccolti tutti assieme in aula a ringraziare per i doni arrivati da Oriente: «Thank you Japan».

I racconti peggiori sono fuori dalle strutture protette, dove per racimolare soldi e andare avanti si usano anche i bambini. Un uomo che aveva un debito con lo shawish , il «mediatore» siriano che si incarica di affittare i terreni libanesi su cui sorgono gli accampamenti, ha apertamente raccontato a Rosa Meneses del Mundo di avergli ceduto la figlia sedicenne per pareggiare i conti. I dossier scrivono di matrimoni precoci per un’adolescente siriana su cinque, se non di più.

Tra i cartelloni pubblicitari riciclati come tende, in uno degli accampamenti della Bekaa che per Beirut non esistono ma che si contano almeno in 1.300, ci sono frotte di bimbe in tute colorate, sporche di fango fin sui capelli, in sandali o senza scarpe. Da quando hanno lasciato la Siria si lavano con l’acqua di un pozzetto mal scavato, i bisogni al cesso chimico, i tappeti come letti, non vanno più a scuola, e domani saranno ancora impantanate nella Bekaa.



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