Accoglierli tutti non è un’utopia

Accoglierli tutti non è un’utopia

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E se avesse ragione Monsignor Nunzio Galantino, Segretario della Conferenza Episcopale Italiana? I progetti da lui tratteggiati nell’intervista di ieri a Repubblica, rivelano una lungimiranza tale da proporli come concretamente realizzabili. E poco importa se già gli ostili gli attribuiscono la perversa intenzione di «accoglierli tutti», i richiedenti asilo e i migranti economici.

D’altra parte «Accogliamoli tutti» fu il titolo di una prima pagina del manifesto di qualche tempo fa e di un nostro libro del 2013. Quest’ultimo recava un sottotitolo («Una ragionevole proposta per salvare l’Italia, gli italiani e gli immigrati») che motivava la possibile combinazione virtuosa, in base a una sorta di «altruismo interessato», tra interessi dei residenti e interessi dei nuovi arrivati.

Non vogliamo, certo, attribuire ad altri, tanto meno al segretario della Cei, capacissimo di parlare in prima persona e con argomenti ben torniti le nostre convinzioni: così come non vogliamo ricavare da quanto appena detto da Tito Boeri (che, fino a prova contraria, non è un volontario della Caritas) prove scientifiche di ciò che noi riteniamo utile, e non solamente giusto, per il nostro Paese. E, tuttavia, quando il presidente dell’Inps dice che i contributi previdenziali versati dagli immigrati, e di cui mai usufruiranno sottoforma di pensioni, rappresentano «quasi un punto di Pil», offre un’indicazione preziosa.

In altre parole, l’Italia ha bisogno di immigrati quanto gli immigrati hanno bisogno dell’Italia: e sono le categorie della demografia e dell’economia a mostrarlo con inequivocabile evidenza.

Questo significa, forse, che l’impresa non sia terribilmente ardua? Nient’affatto. In estrema sintesi, la convivenza è possibile, realizzabile, economicamente, socialmente e culturalmente proficua e, tuttavia, assai faticosa e spesso anche dolorosa. Gli ostacoli possono essere enormi, ma nessuno è insormontabile.

E, soprattutto, il contrario di questa prospettiva è una utopia regressiva e torva, quella che porterebbe non alla Fortezza Europa – come si augurano i comici Amish padani (e chiediamo scusa agli Amish veri) – bensì a una sorta di «cronicario Europa», senescente e sterile, autarchico e reclinato su sé stesso. Non solo. Quel dato ricordato da Boeri ne richiama altri particolarmente istruttivi: i circa 2 milioni e 400mila lavoratori stranieri regolari producono oltre l’8,8% della ricchezza collettiva del nostro Paese. E si pensi a un altro fattore demografico inesorabile: tra non molto tempo, gli italiani della fascia di età oltre i 65 anni saranno 1 su 4. Con quali conseguenze rispetto al fabbisogno di assistenza e cura (solo in minima parte fornito da autoctoni), è facile da immaginare. Ed è solo un esempio. Tutto ciò in uno scenario dove, nel corso del 2015, hanno sì abbandonato il nostro Paese 91 mila cittadini italiani ma anche 48 mila stranieri già regolarmente residenti.

Perché tutte queste cifre che, se analizzate con attenzione dovrebbero ridimensionare sensibilmente quell’immagine di «emergenza epocale» costantemente evocata, non sono sufficienti a rassicurarci? Per tante ragioni, e per una essenzialmente: perché la gestione, così spesso improvvisata e sgangherata dei flussi migratori e, in particolare, degli sbarchi, con l’immenso carico di sofferenza e di emozione che li accompagna, accredita una percezione grottescamente alterata di minaccia e di invasione.

Al contrario, e senza alcuna tentazione provocatoria e tantomeno profetica, pensiamo proprio che «accoglierli tutti» (o quasi) sia possibile. Certo, attraverso una politica comune europea, che resta l’obiettivo più difficile da raggiungere; e una politica italiana dell’immigrazione e dell’asilo che si proietti su un arco di medio termine (cinque-dieci anni) con i relativi investimenti e l’adeguata mobilitazione di personale, strutture e servizi. E ancora: mutuando e moltiplicando quelle iniziative – oggi modeste nelle dimensioni, ma potenti per il messaggio trasmesso – capaci di realizzare canali legali e sicuri per l’accesso in Italia e in Europa, come il corridoio umanitario al quale lavorano la Comunità di Sant’Egidio, la Federazione delle Chiese Evangeliche Italiane e la Tavola Valdese.

D’altra parte, una semplificazione e una maggiore duttilità delle norme che amministrano gli ingressi regolari (oggi ridotti a ben poca cosa) e una più intelligente articolazione del mercato del lavoro in grado di accogliere e qualificare tanti lavoratori generici, sottraendoli all’illegalità, potrebbero consentire l’occupazione di settori di manodopera straniera, oggi marginalizzati. Tutto ciò non è una ricetta miracolosa, è un percorso lungo, dagli esisti incerti, ma costituisce la sola alternativa realistica e saggia all’esplosione di laceranti conflitti etnici e alla stessa dis-integrazione dell’Europa.

Richiede molto tempo e intelligenza politica e, soprattutto, la capacità di sottrarsi a quella sudditanza psicologica nei confronti degli imprenditori politici dell’intolleranza, che sembra paralizzare una parte estesa della classe politica. Sullo sfondo, un’antica lezione che – per quanto la storia l’abbia mille volte confermata – sembra, ancora una volta, restare inascoltata. Quando la sinistra fa la destra, è sempre la destra a vincere. Di fronte a una copia abborracciata è pressoché fatale che si finisca con lo scegliere l’originale.



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