by Silvio Messinetti, il manifesto | 24 Giugno 2016 9:13
È un rapporto shock. Un quadro a tinte forti, dove è disegnata un’Italia schiavista, in cui le forme di sfruttamento raggiungono picchi da terzomondo. “Filiera sporca 2016”, dossier[1] a cura dell’associazione Da Sud, di Terra onlus e della testata Terrelibere.org[2], è stato presentato ieri alla Camera dei deputati, alla presenza dei parlamentari Celeste Costantino (Si) e Luigi Manconi (Pd).
Dopo un anno di campagna, missioni di ricerca, interviste, questionari, articoli, convegni, incontri con gli agricoltori, resta la certezza che la trasparenza della filiera sia quanto mai necessaria per porre fine a un fenomeno indecente che mette in condizioni di alienazione migliaia di braccianti, stranieri e non, dal Sud al Nord Italia, dall’Europa meridionale fino in Cina. «Perché se dopo oltre vent’anni non si è riusciti a sconfiggere il fenomeno in Italia, o non si è voluto farlo o gli strumenti con cui si è intervenuto non sono stati sufficienti» si legge nel Rapporto. Filiera sporca interroga e fornisce le risposte dei grandi attori della filiera agroalimentare, denuncia la mancata trasparenza della Grande distribuzione organizzata (Gdo), il ruolo distorto delle organizzazioni dei produttori che agiscono come moderni feudatari, dimostra come il costo delle arance riduca in povertà i piccoli produttori e lasci marcire il made in Italy. Produrre 1 kg di arance da succo costa circa 22,5 centesimi: 10 centesimi per la materia prima, 2,5 per il trasporto della merce, 10 per la trasformazione e la lavorazione. Per produrre 1 kg di concentrato servono 12 kg di arance. Il costo di produzione di 1 kg di concentrato è perciò pari a circa 2,70 euro, ma le multinazionali del succo e la Gdo impongono un prezzo pari a 1,80/2 euro al kg. La differenza, pari a circa 70 centesimi, sono i costi che la filiera non riconosce. Su chi si scarica questo costo? Innanzitutto sul costo del lavoro, compreso nei 10 centesimi e pari a circa 6/8 centesimi, ma comprimibile fino a 2 centesimi nel caso dei raccoglitori di Rosarno. In secondo luogo sui consumatori che – complice anche una normativa che non prevede l’obbligo di indicare l’origine in etichetta – spesso non sanno davvero cosa stiano comprando: per rientrare dei costi le aziende utilizzano percentuali di succo bassissime. E spesso miscelate con quello low cost proveniente dal Brasile.
Un dato su tutti, ben evidenziato nel Rapporto, esemplifica il problema ed è fornito dal titolare di Agrumigel: «L’industria di trasformazione fattura 400 milioni l’anno, ma si comprano agrumi per soli 50 milioni».
C’è una nuova categoria tra i dannati dei campi. Sono i rifugiati-braccianti. La piana di Mineo si trova proprio nel cuore della produzione delle pregiate arance rosse di Sicilia. È su quei 2 mila ettari di superfici agrumetate che l’aria fredda dell’Etna arriva più diritta pigmentando le arance e conferendo loro il colore rosso che caratterizza la più pregiata varietà sicula, il Tarocco. Quest’anno le arance di Mineo sono andate quasi tutte all’industria di trasformazione, dove viene conferito il prodotto di scarto che la Gdo non riesce a commercializzare. Sono state pagate in media 7 centesimi al kg, «un prezzo per cui non varrebbe nemmeno la pena raccoglierle», spiegano, nel rapporto Filiera Sporca, i produttori della zona. A meno di non fare quella che viene chiamata «la raccolta in economia» ovvero assoldare figli, familiari, vicini di casa e, quando questi mancano, trovare qualcuno disposto a lavorare anche per 10 euro al giorno.
I neobraccianti della stagione 2016 sono i richiedenti asilo del Cara di Mineo, il comprensorio nato per ospitare i militari dell’ex base statunitense di Sigonella e che dal 2011, con i suoi circa 4 mila ospiti, è diventato uno dei centri per rifugiati più grandi d’Europa. Qui il caporalato non c’era. È nato con il Cara. A Mineo lo Stato non rilascia i documenti. Ma consegna i profughi nelle mani dei caporali. Il fenomeno è in corso almeno da un anno «ma nel corso della campagna 2016 ha assunto dimensioni massicce», denuncia il sindacato. Ogni mattina alle 8, in sella alle biciclette comprate per 25 euro direttamente all’interno del Cara, centinaia di asilanti escono per cercare lavoro negli agrumeti circostanti. Si fermano a minuti gruppetti, con le loro biciclette ammassate sui selciati, negli incroci delle strade, in attesa che qualche produttore locale venga a prenderli per portarli nei campi. I più esperti raggiungono direttamente i campi della raccolta. Non potrebbero lavorare, perchè richiedenti asilo e privi del permesso provvisorio di lavoro che può essere riconosciuto dopo 6 mesi di permanenza nel territorio italiano, e invece davanti ai cancelli del “Residence degli aranci” – così è chiamato il villaggio di Mineo – tutto avviene in modo disinvolto. Di prima mattina, a partire dalle 7, sono autorizzati a depositare le biciclette fuori lungo la staccionata antistante l’ingresso del residence. Ma l’uscita al lavoro può avvenire soltanto a partire dalle 8, quando il grande cancello dietro cui si ammassano a decine, viene aperto dalle forze dell’ordine che presidiano notte e giorno il centro.
«Lavorano in condizioni schiavistiche – ha rilevato Rocco Anzaldi della Flai del Calatino – i produttori lamentano il prezzo eccessivamente basso del prodotto ma in questo modo è l’intera economia locale ad essere danneggiata, con un dumping che spinge sempre più giù le condizioni di lavoro e contribuisce a sua volta ad abbassare i prezzi». È dunque una filiera fuori controllo in cui le difficoltà del mercato agrumicolo sono state scaricate completamente sul costo del lavoro, dove è il sistema di accoglienza dei migranti a creare le nuove vittime di capolarato e sfruttamento, con holding criminali che usano l’accoglienza per accaparrarsi fondi pubblici, funzionali solo alla speculazione economica.
Per disinnescare la miscela esplosiva di sfruttamento del lavoro e marginalità bracciantile, la campagna Filiera Sporca chiede una legge sulla trasparenza che preveda l’introduzione di una etichetta «narrante» sui prodotti. E l’introduzione di un elenco pubblico dei fornitori che permetta la tracciabilità lungo la filiera.
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