MADRID L’ufficio di Pablo Iglesias, il Segretario generale di Podemos, sembra quello di un impiegato in un’agenzia amministrativa. Non è chiaro se ne abbia appena preso possesso o se sia appena arrivato; è un po’ come se la provvisorietà fosse l’allegoria della sua stessa situazione politica. Un leader in una situazione mutevole e un partito dall’ideologia trasformista che aspirano a La Moncloa (il palazzo sede della presidenza del Governo ndr.), e che, finora, sembrano essersi garantiti l’egemonia della sinistra. C’è un poster di Che Guevara, un quadro della Khaleesi (il personaggio di Game of Thrones) e una biografia di Simón Bolívar, ma ce ne è anche una di re Juan Carlos e una rivista che dedica la copertina a Felipe González.
Quanto pesa il carisma di Pablo Iglesias in Podemos?
«Sempre meno. Siamo un’organizzazione nata con una zavorra, e cioè il fatto di dipendere troppo da quanto fosse noto il suo candidato. Ora abbiamo una leadership corale e molti candidati con toni e stili diversi».
Può esistere Podemos senza Pablo Iglesias?
«Assolutamente sì. E che si possa prescindere da me è la migliore notizia per Podemos».
Pensa di ritirarsi quando il partito sarà lanciato?
«Sì. Per due motivi. Perché la politica è temporanea e perché uno deve essere sempre a disposizione dell’organizzazione. Voglio diventare presidente del Governo, e questo implica una disponibilità di 4 o 8 anni, ma è un fatto rivedibile».
Smentisce, quindi, il paradosso secondo il quale Iglesias potrebbe distruggere il partito fondato da Iglesias?
«Lei sta parlando dell’alleanza con i socialisti: ma in politica è fondamentale capire i rapporti di forza. Senza il Partito socialista non ce la faremo. Stiamo già governando le principali città spagnole grazie a loro».
Al momento sembra che Psoe e Podemos abbiano rotto i ponti.
«Bisogna pensare al futuro. Ci sono state parole pesanti. Anche da parte mia. Capisco il tono aspro di Pedro Sánchez in questa campagna, ma penso che dopo il 26 giugno si debbano abbassare i toni. Dobbiamo parlare della Spagna».
Da dove comincerebbe la sua autocritica?
«A volte ho usato un tono troppo duro. Certe cose basta suggerirle una volta, non c’è bisogno di ripeterle. E credo che a volte la dinamica dell’aggressività parlamentare mi abbia attirato come una calamita. Essere in politica è anche maturare, rendere più forti le proprie spalle. Bisogna fare come Muhammad Ali sul ring: muoversi come una farfalla e pungere come un’ape».
Le hanno consigliato di cambiare look, le hanno raccomandato la cravatta… È disposto a un aspetto più formale o le sembra una frivolezza?
«Portavo sempre la cravatta. Era abituale che la indossassi nei programmi in televisione, come dimostrano le prime parodie che mi hanno dedicato. Ammetto che mi diverte l’aspettativa suscitata da ogni cosa che faccio. Il più piccolo dei gesti viene interpretato come un’operazione attentamente calcolata».
Qual è stata la cosa peggiore dell’esperienza politica?
«Perdere tempo per fare cose che mi piacciono. Prima leggevo molto di più. Avevo il privilegio di bere una birra nell’anonimato. Ma quello della politica è anche un viaggio incredibile».
Le voglio citare Umberto Eco.
“Appellarsi al popolo significa costruire una finzione: siccome il popolo in quanto tale non esiste, il populista è colui che si crea una immagine virtuale della volontà popolare”.
«È intelligente, come tutto quello che diceva Eco, ma è una negazione dei fondamenti politici della democrazia. La sovranità si fonda sulla volontà del popolo. Sicuramente a livello accademico e intellettuale è molto interessante. Ma chi non si appella al popolo? ». Si parla di una sua affinità con Papa Francesco. Non ci sono stati dei cambiamenti reali in Vaticano, al di là della forma o della superficie. Podemos corre lo stesso pericolo? «Quello che il Papa dice e fa, produce realtà. E lo stesso vale in politica. Podemos ha già contribuito a realizzare dei cambiamenti in Spagna. E questo, senza essere arrivati al governo. Quando ci arriveremo…».
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