Quegli imprenditori (troppo) piccoli Fare un buon prodotto non basta più La sfida di mettersi in rete
Lo scrittore Edoardo Nesi sostiene che la sua gente, i Piccoli imprenditori delle tante Prato d’Italia, fa fatica a entrare in un mondo come quello post-crisi dove le regole di comportamento sono radicalmente cambiate. Dove il valore dell’esperienza manifatturiera sembra non servire più, dove il racconto dei migliori che trainavano e del resto che seguiva in buon ordine è fuori corso, dove è difficile comunicare ai propri operai l’entusiasmo per il lavoro. Nesi pensa che siamo di fronte a una mutazione antropologica e il piccolo imprenditore stia perdendo quella proiezione verso il futuro che era la sua arma migliore e stia maturando «una radicata incomprensione del mondo contemporaneo». Si sente fuori contesto. Lo scrittore toscano non pensa che finita la recessione tutto vada male ma che siamo entrati in un mondo dove hanno successo solo i migliori e ce ne sono sia nella sua città sia in altri distretti come la vicina Carpi. I migliori però gli sembrano essere pochi in confronto ai tanti disorientati, agli imprenditori senza bussola. Se a queste suggestioni da scrittore, i pochi e i tanti, cerchiamo di attaccare dei numeri fatichiamo, eppure sarebbe necessario.
Tutti parlano di polarizzazione del sistema delle imprese ma nessun centro studi si azzarda a definire le proporzioni. Per convenzione si accetta che i bravi siano solo un quarto: hanno saputo capire per tempo come cambiava il business e hanno fatto le cose giuste. L’export li ha aiutati negli anni più difficili e ora che il commercio internazionale langue non si stracciano le vesti, sono certi di avere le carte in regola. La ripresa è selettiva ma non per loro che hanno usato la crisi per ristrutturare organizzazione e costi. Altri due quarti, la maggioranza, sono nella famosa metà del guado, possono agganciare la testa e magari entrare in una filiera produttiva vincente oppure possono scivolare in basso.
L’ultimo quarto invece è composto da quelli che faticano ad accettare questa modernità. Una volta per loro bastava fare bene il prodotto, avere buoni rapporti con il direttore della banca, dare un occhio a quello che facevano i concorrenti e caso mai copiare. Oggi questo copione è logoro, le banche chiedono bilanci veri e trasparenti, chiedono uno straccio di business plan e il Piccolo capisce che è cambiato il modo in cui viene valutato, che gli viene richiesto qualcosa in più. Vincenzo Boccia, neo-presidente di Confindustria e piccolo imprenditore, nel discorso di insediamento che viene ricordato per la frase «piccolo non è più bello» ha parlato di un nuovo paradigma economico post-crisi e anche detto che le medie non hanno più significato. «Ci sono imprese che vanno benissimo e imprese che vanno malissimo». Due superlativi. Per capire meglio cosa sta capitando e la forbice che si sta aprendo tra chi ha saputo innovare ed esportare e chi continua ad avere una strategia fondata sui prezzi bassi, si può dare un’occhiata all’indagine sui settori pubblicata da Ref Ricerche. «C’è un diffuso scetticismo di molti imprenditori che sostengono di non percepire segnali di rafforzamento della domanda e ciò è documentabile: su 190 settori dell’industria solo il 50% registra variazioni positive, quindi la metà dei settori non sta crescendo». Un ruolo-chiave lo sta giocando l’automotive, una riattivazione di un segmento storicamente decisivo per l’Italia ma su cui «pochi facevano affidamento sino a poco tempo fa». In contrazione invece tessile-abbigliamento, costruzioni/sistema casa e l’editoria. Per valutare questi dati bisogna aver presente che comunque la Grande Crisi aveva già tagliato il 30% della capacità produttiva buttando fuori mercato i settori aggrediti dalla competizione internazionale low cost, cinesi in primis. «Sarebbe anche utile sapere quanto di questi settori abbiano delocalizzato ma non ci sono statistiche in merito», chiosa De Novellis.
Un’altra traccia utile per fotografare la polarizzazione ce la forniscono i lavori del centro studi Intesa Sanpaolo sui distretti e su una classe di nuove medie imprese creatasi per crescita interna e non per aggregazioni. I nomi sono sconosciuti al grande pubblico (Mesgo, Idael Plast, Stefanplast, Panni, EcoPolifix, Comas, Valdo, Tripel) ma segnalano un trend interessante. E’ evidente che questo tipo di imprese è ben monitorato, i bilanci sono studiati, sono clienti interessanti per la consulenza o per i prodotti della Borsa. Hanno anche il vantaggio di essere ottimisti e simpatici, chi riesce li ingaggia per portarli nei festival o nelle tavole rotonde, si sono anche patrimonializzati. Il Ceo della banca, Carlo Messina, li ha definiti «un’Italia a tripla A». Anche il Cerved conferma: nel 215 sono nate 87 mila nuove società di capitali, 4 mila imprese hanno raddoppiato il fatturato tra il 2007-2014. Dell’ultimo quarto — quelli che vanno malissimo, per dirla con Boccia — invece sappiamo troppo poco, sfuggono ai radar dei centri ricerche e in qualche modo anche a quelli delle associazioni. Nel 2015 ogni giorno hanno chiuso 895 imprese, un numero compensato però da 1.018 aperture quotidiane. Non conosciamo l’età media degli imprenditori, si sospetta che sia elevata e che non ci sia possibilità di staffetta generazionale perché tra i figli c’è la tendenza a evitare il replay della dura vita fatta dal padre. Spiega Fabrizio Guelpa (Intesa Sanpaolo): «Chi è legato a una buona catena del valore va, ma chi resta isolato ha difficoltà. Le banche tendono a concentrare il credito sui migliori e del resto le imprese peggiori non hanno bilanci ed è impossibile formulare una buona valutazione del merito di credito». La crisi delle banche di territorio, specie quelle venete, è tutt’uno con la riflessione sui Piccoli fuori radar. Non sappiamo ancora quale sarà l’effetto pratico della svalutazione dei titoli della Popolare di Vicenza e di Veneto Banca, lo vedremo solo con i bilanci 2016 ma Fabio Bolognini, curatore del blog Linkerbiz, parla di «bomba ad orologeria». Solo per Vicenza vanno calcolati 6,2 miliardi di euro di ricchezza evaporata che riflessa nei bilanci familiari e imprenditoriali di una miriade di piccoli risparmiatori e micro-aziende produrrà conseguenze devastanti. Se passiamo infine al terreno della rappresentanza, l’assenza dei Piccoli dal proscenio è fin troppo evidente. Sei mesi fa si è dimesso per passare ad altro incarico il garante delle Pmi, Giuseppe Tripoli, nominato a suo tempo per effetto di una direttiva europea. Non è stato sostituito e forse nemmeno lo sarà. La grande Alleanza del Ceto medio che sarebbe dovuta nascere dalla convergenza di artigiani e commercianti si è rilevata un progetto generoso finito su un binario morto. La politica, poi, alle prese con i suoi problemi è quantomeno disattenta e persino la Lega che aveva del piccolo imprenditore il cuore della sua constituency nel passaggio da Umberto Bossi a Matteo Salvini sembra puntare su altre priorità.
Dario Di Vico
(segue)
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