Ágnes Heller. Un orizzonte di visionaria felicità
A ottantasette anni, Ágnes Heller incarna sempre la vitalità della filosofia ben oltre l’etichetta di «allieva di Lukács». È stata una delle protagoniste al Festival Biblico di Vicenza del dialogo con Riccardo Mazzeo, ispirato dal saggio a quattro mani Il vento e il vortice. Utopie, distopie, storia e limiti dell’immaginazione (Erickson pagine 152 euro 14,50). «È un libro nato a Pordenonelegge nel settembre 2015 dopo il confronto con Riccardo Mazzeo sul tema ’bellezza e utopia’. Allora mi stavo occupando di filosofia medioevale e rinascimentale. Ma scattò l’interrogativo: ’Perché oggi non ci sono più utopie?’. Così sono giunta alla conclusione che questa assenza potrebbe perfino trasformarsi in un vantaggio…» spiega, mentre sorseggia felice un espresso e conta di concludere il suo soggiorno italiano con la visita alla Biennale di architettura.
Sopravvissuta alla Shoah, espulsa nel 1959 dall’Università di Budapest, emigra con il marito Ferenc Fehér in Australia nel 1977. Dopo aver insegnato sociologia a Melbourne, approderà a New York sulla prestigiosa cattedra di Hannah Arendt.
Da tempo è tornata a vivere nella capitale ungherese, anche nel ruolo di spina nel fianco del premier ultranazionalista Viktor Orban. E di nuovo, nell’ultimo libro, Ágnes Heller insiste nell’illuminare speranze e paure alla luce di uno sguardo filosofico mai disattento nei confronti delle trame visionarie quanto dell’attualità.
«Dal mio punto di vista, occorre distinguere due forme di utopia – spiega la filosofa -. Quella del desiderio, cioè un mondo in cui tutti i bisogni sono soddisfatti: non si deve lavorare, niente Stato né leggi o guerre. È come l’età dell’oro che è alle nostre spalle, come per la Grecia antica. O come nella Bibbia (Genesi, 2) con Adamo e Eva nel Giardino dell’Eden, che hanno tutto a disposizione senza dover lavorare e non sono minacciati dal dolore e dalla morte. Marx immagina lo stesso tipo di utopia, solo che diventa quella del futuro dell’umanità: niente mercato, Stato, leggi, istituzioni, matrimonio, eccetera; tutti i bisogni soddisfatti nella società dell’abbondanza. Ma come già evidenziava Freud in Disagio della civiltà, utopia senza cultura e con una libertà totalmente negativa».
E l’altra forma di utopia qual sarebbe?
L’utopia filosofica. In buona sostanza, non ci permettono la soddisfazione dei nostri desideri, però da qualche parte e in qualche modo possiamo immaginare la società giusta. Comincia Platone con la sua Repubblica ideale, perché i filosofi sono in grado di trasformare l’idea in realtà e quindi anche di creare lo Stato perfetto.
Nel 1516 Thomas More scrive Utopia nell’età delle grandi scoperte: è l’isola esattamente opposta all’Inghilterra; ma è anche, di fatto, uno Stato totalitario. Con Charles Fourier si approda all’utopia socialista del falansterio. Costruita «scientificamente», perché nel XIX secolo si aveva fede nella scienza capace di risolvere ogni problema. Di qui l’idea che sarebbe stato sufficiente mettere gli individui insieme per ottenere lo stato d’armonia e la felicità di tutti. Dopo il 1789 la narrazione è ispirata, invece, dall’idea di progresso universale. Dallo stato primitivo si tende verso quello civilizzato. Progresso all’orizzonte dell’umanità per evoluzione, grazie alla rivoluzione o attraverso riforme progressive.
Il «secolo delle ideologie» tuttavia non produce felicità, ma guerre mondiali. Né realizza sogni: se mai, disillude…
Si giunge così all’idea della fine dell’utopia. Nel XX secolo collassa il concetto di progresso: dopo Auschwitz e i gulag come si può ancora parlare di società che tende naturalmente al meglio, al futuro luminoso, alla progressiva felicità? È il primo momento di critica culturale che apre alla prospettiva della distopia. Si sviluppa il concetto di decadenza, che Oswald Spengler sintetizza nel Tramonto dell’Occidente. Ma con l’incubo della guerra nucleare anche la scienza non è più l’angelo della redenzione: le bombe atomiche sono l’emblema della dannazione.
Si imbocca così l’immaginazione critica, la «contro-narrazione», il pensiero non più edificante?
Le distopie sono gli scenari dell’autodistruzione per la nostra ecosfera, che da almeno vent’anni sono previsti nella letteratura scientifica. Altri vettori di distopie sono le opere di letteratura fiction che già Jonathan Swift aveva offerto con le sue satire. Penso in particolare al Mondo nuovo di Aldous Huxley, a 1984 di George Orwell e a La strada di Cormac McCarthy. Senza dimenticare i numerosi film con le medesime caratteristiche.
E cosa hanno in comune?
Le distopie sono avvertimenti. Ci mostrano le alternative alla disillusione, alla disperazione, alla catastrofe. Un po’ come i profeti biblici che, nella società dominata dal peccato, indicano all’umanità che soltanto con la correzione dei suoi comportamenti, può evitare un’esistenza dannata. Oggi sappiamo che l’uso delle armi nucleari equivale alla fine del mondo. O che abbiamo una scelta fra essere soggiogati da un leader totalitario e difendere le libertà.
Dunque, in questo vortice, esiste qualcosa che si possa fare?
Coltivare il «giardino» in cui viviamo. Con responsabilità, attenzione e cura. Era il suggerimento di Voltaire, nel Candido. Del resto, questo è il mondo dove siamo nati e moriremo. Ognuno deve mantenerlo e insieme renderlo un po’ migliore. Non è una prospettiva brutta: senz’altro migliore rispetto alla disillusione che nasce dalle utopie mancate.
Tornando ai temi dell’ultimo saggio, dove si annida la contraddizione fondamentale dell’individuo nella società?
Occorre ritornare alla Costituzione della Rivoluzione francese che sancisce i droits de l’homme e du citoyen come se i diritti umani e quelli di cittadinanza fossero equivalenti e perfino sinonimi. Non è certo così, soprattutto dal punto di vista etico nell’Europa moderna. Ci viene, infatti, chiesto di essere brave persone e buoni cittadini. Due sfere differenti: la moralità individuale e il rispetto delle leggi. Eppure, sono anche pilastri che si sorreggono a vicenda nel nostro mondo. La cooperazione tra valori privati e virtù pubbliche è oggi più necessaria che mai se vogliamo evitare che il futuro assomigli agli incubi della distopia.
E la crisi che attanaglia l’Europa, è risolvibile?
Va sempre ricordato che, al contrario del mondo anglosassone, in Europa la democrazia non è certo una tradizione. Anzi, per Grecia, Spagna, Portogallo e per la stessa Italia vale solo negli ultimi decenni. E nella storia dei Paesi dell’Est la democrazia è ancora più recente. Piuttosto, bisogna prestare attenzione al bonapartismo sempre presente in Europa: lo inaugura Napoleone e arriva ben oltre Mussolini. L’uomo forte, che tutto risolve, perché finisce con l’incarnare la verità, lo Stato, la società. Il «condottiero» che non si fa scrupoli e ricorre al populismo, anche se rappresenta interessi oligarchici.
A volte mi vien da pensare che il Vecchio Continente sia stato ri-paganizzato: la nazione come autorità suprema e il nazionalismo come religione. Eppure, l’Unione Europea è nata, al contrario, come «universalistica» all’insegna della solidarietà fra gli stati membri.
Purtroppo, la costruzione dell’Ue non è stata accompagnata dall’emergere di una coscienza europea comune. Così l’Europa rischia di restare un progetto burocratico senz’anima. Paradossalmente, l’opportunità di cambiamento e di apertura ci arriva dall’emergenza dei rifugiati e dalla minaccia terroristica.
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