Ali prima di Ali, come nasce un mito

by Guido Caldiron, il manifesto | 5 Giugno 2016 10:45

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«Nei momenti di maggiore intensità, la boxe pare contenere un’immagine della vita così completa e potente – la bellezza della vita, la vulnerabilità, la disperazione, il coraggio inestimabile e spesso autodistruttivo – che è davvero vita, e nient’affatto gioco», scrive Joyce Carol Oates nel suo saggio Sulla boxe.

Un grumo di sentimenti e di emozioni, di forza e di fragilità che Alban Lefranc, scrittore, traduttore e poeta francese, nato a Caen nel 1975, e che vive da tempo tra Parigi e Berlino, già autore di diverse biografie narrative dedicate a personaggi della cultura come dello spettacolo, ha cercato di cogliere ne Il ring invisibile, il suo libro dedicato a Muhammad Ali uscito da qualche anno per la casa editrice romana 66thand2nd. Un volume affascinante dove è il pugile stesso a raccontare la propria biografia, ricostruita in realtà da Lefranc a metà strada tra realtà e finzione narrativa, come un lungo e inesorabile corpo a corpo con la storia.

La sua scomparsa non aggiunge nulla alla figura di un uomo che è divenuto un mito quando era in vita. Lei perché ha scelto di raccontare in forma narrativa una parte della vita di Muhammad Ali?

Sono partito dall’icona che ha rappresentato, per me come per il resto del mondo, per poi cercare di scoprire le fragilità dell’uomo, la sua anima, se così si può dire, proprio oltre il mito che era diventato, in qualche modo oltre e nonostante la sua maschera pubblica. Frequento una palestra di boxe da alcuni anni e ciononostante continuo a chiedermi perché non sia vietata e cosa ci affascini così tanto nel vedere due persone che si prendono a pugni fino a farsi davvero male. Volevo cercare di ricostruire attraverso la scrittura gli stati d’animo estremi che caratterizzano i campioni del pugilato. Ali è stato questo, elevato all’ennesima potenza, ma è stato anche uno dei simboli più forti e duraturi della comunità afroamericana, amico di Malcom X e dei Black Muslims. Un uomo che ha combattuto, sul ring come fuori, che ha vinto e che a perso ma che si è sempre messo in gioco, a cominciare da quel corpo che lo ha reso celebre ma che da tanto tempo minacciava ogni giorno di abbandonarlo a causa della malattia.

«Il ring invisibile» non parla tanto di Muhammad Ali, del campione ribelle che ha fatto sentire la sua voce ovunque, quanto piuttosto del giovane Cassius Clay, del ragazzo che sceglie la boxe per cercare di cambiare la sua vita, perché?

Perché il mito di Alì, la sua leggenda dorata, è già stata raccontata, è già nota a tutti noi. Mentre invece il modo in cui tutto è cominciato per il giovane Cassius Clay è praticamente ignoto ai più. Diciamo che sono partito alla scoperta di “Ali prima di Ali” proprio per cercare di decifrare l’origine di quello chi si trasformerà poi in una sorta di icona pop, cogliere le sue contraddizioni, la sua fragilità così ben mascherata da un fisico possente. Volevo comprendere e cercare di raccontare il modo in cui il suo giovane corpo si è definito, plasmato, fino a diventare a un tempo la fortezza e la prigione di quest’uomo.

Nel libro, Cassius Clay, ancora ragazzo, decide di diventare un pugile dopo che un suo coetaneo di 13 anni, Emmett Till, un giovane nero di Chicago in vacanza nel Mississippi viene linciato dai razzisti, che ne sfigurano anche il volto, perché aveva osato guardare una donna bianca, era il 1955. Questa drammatica vicenda fu davvero decisiva?

Senza dubbio, è quello che lui stesso ha raccontato più volte in seguito. Nello scrivere la sua storia ricordo come fu suo padre, in uno dei rari momenti in cui non era ubriaco, a raccontare l’accaduto a Cassius e come lui avesse reagito con rabbia e disgusto, identificandosi del tutto con la vittima. Così, gli faccio dire: «Ascolta la mia promessa Emmett: a te che non hai più la faccia, io darò la mia. Andrai nel mondo con i miei occhi e la mia bocca, sotto la protezione dei miei pugni». Credo non si possa capire l’intera traiettoria esistenziale di Clay se non si tiene conto di questo: per tutta la vita ha cercato di ribellarsi alla miseria e all’abbandono in cui era cresciuto, ma soprattutto all’ingiustizia che aveva visto, e ha continuato a vedere fino ad oggi, intorno a sé.

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