by FEDERICO RAMPINI, la Repubblica | 28 Giugno 2016 9:52
La rivolta di Seattle non ferma la corsa la Cina entra nel Wto
L’81esima Brigata della Washington State Patrol batte in ritirata. Si dimette il capo della polizia di Seattle. Bill Clinton deve chiamare la Guardia Nazionale. Il vertice- simbolo della globalizzazione nasce e muore nel caos.
30 novembre 1999: Seattle è sotto assedio. Un summit tra capi di Stato deve varare i nuovi negoziati mondiali sulla liberalizzazione degli scambi. Protagonista è la World Trade Organization (Wto), Organizzazione del commercio mondiale, arbitro e cabina di regìa della globalizzazione. Ma a Seattle converge la «madre di tutte le proteste»: 40.000 manifestanti, in una serie di cortei dove si fondono i sindacati operai, le ong ambientaliste, i primi black-bloc. Irrompe sulla scena il movimento no-global. Il vertice finisce nel caos: molti leader dei governi assediati negli alberghi non riescono neppure a raggiungere il centro congressi, avvolto in nuvole di lacrimogeni, le forze dell’ordine sono sopraffatte. Quel giorno viene scritto un copione che si ripeterà in molti summit successivi, raggiungendo l’apice al G8 di Genova nel 2001. Perfino il World Economic Forum di Davos, l’esclusivo ritrovo dei Vip ad ogni fine gennaio sulle montagne dei Grigioni, dopo i precedenti di Seattle e Genova è costretto a blindarsi.
Seattle lancia temi che sono attuali oggi: gli effetti della globalizzazione sui salari occidentali; i danni per l’ambiente e la salute dei consumatori; lo strapotere delle multinazionali. 17 anni fa è già vivace quella critica che oggi prende di mira una nuova generazione di trattati, il Tpp tra America e Asia-Pacifico, il Ttip tra Stati Uniti ed Unione europea. Ma la vera ragione per cui fallisce il vertice di Seattle è un’altra: 40 delegazioni governative venute dall’Africa e dall’America latina respingono l’accordo; sono i paesi dell’emisfero Sud a far saltare le trattative, allora, perché si ritengono sopraffatti dagli interessi del capitalismo occidentale. Il movimento no-global condivide questa narrazione. Anche in Occidente gli avversari della globalizzazione pensano che nel nuovo assetto economico mondiale i perdenti saranno i paesi in via di sviluppo.
Il tema dell’ingiustizia viene declinato lungo l’asse Nord-Sud. Lo stesso vale per i primi guru teorici del no-global. Il più celebre è Joseph Stiglitz, che vince il Nobel dell’economia nel 2001, dopo avere “divorziato” dall’ortodossia liberale: negli anni Novanta era stato consigliere economico di Bill Clinton e capo economista della Banca Mondiale. Il suo libro “La globalizzazione e i suoi oppositori” (2002) è un attacco al “consenso di Washington”: le dottrine a base di austerity e privatizzazioni che la Casa Bianca e il Fondo monetario internazionale impongono ai paesi del Terzo mondo. I progressisti in Occidente sono convinti che la globalizzazione sia un nuovo capitolo dell’imperialismo post-coloniale.
E’ nel 2001, con l’ingresso della Cina nel Wto, che la storia imbocca una svolta improvvisa e dalle conseguenze inattese. La “cooptazione” della Repubblica Popolare, la più grande nazione del pianeta e una superpotenza comunista, è un progetto made in Usa. Il capitalismo americano ha già articolato la sua strategia delle delocalizzazioni: spostare il manifatturiero dove i costi del lavoro sono più bassi, delegare alla periferia dell’impero le produzioni più inquinanti, concentrarsi sulle attività ad alto valore aggiunto. La Silicon Valley californiana ha capito per prima i vantaggi di una simbiosi con la Cina, la catena produttiva di Apple voluta da Steve Jobs è esemplare: gli ingegneri del software stanno a Cupertino, gli operai a Shenzhen.
Sul versante politico i protagonisti sono quattro presidenti: Bill Clinton e George W. Bush da una parte, Jiang Zemin e Hu Jintao dall’altra. In Cina vince l’ala tecnocratica e pro-business del partito comunista, emarginando un’opposizione interna che rifletteva le stesse paure dei no-global occidentali: l’ala sinistra cinese era convinta che il Wto sarebbe stato il cavallo di Troia per la colonizzazione del paese ad opera delle multinazionali occidentali. Nel dicembre 2001 la Cina entra a tutti gli effetti a far parte del “nostro mondo”. Come membro del Wto le si spalancano nuovi mercati.
Ha inizio una storia spettacolare di decollo trainato dalle esportazioni. Sarà uno shock storico. Il miracolo cinese si produce su dimensioni che non hanno precedenti. Dopo la Cina tocca all’India di Sonia Gandhi e Manmohan Singh; anche “l’elefante addormentato” si risveglia con una terapia di liberalizzazioni. Ben presto la geografia dello sviluppo si allarga, l’economista di Goldman Sachs Jim O’Neill inventa l’acronimo dei Brics, aggiungendo a Cindia anche Brasile Russia e Sudafrica. In un quarto di secolo nasce nei paesi emergenti un ceto medio di 800 milioni di persone, un mercato immenso. Per loro, la globalizzazione ha un segno positivo. Non a caso il regime autoritario di Pechino riesce a consolidare un consenso, e così smentisce le profezie ottimiste di Clinton e Bill Gates, sull’inevitabile transizione alla democrazia che avrebbe dovuto accompagnare il capitalismo.
L’economista Branko Milanovic nel suo studio “Global Inequality” oggi ci apre gli occhi davanti a questa contraddizione: la globalizzazione ha reso il mondo meno ineguale nel senso che ha accorciato le distanze Nord-Sud; ma all’interno di ogni nazione ha divaricato la sorte dei ricchi da quella di tanti altri. «All’interno dei nostri paesi – dice Milanovic – a coloro che sono stati impoveriti non possiamo rispondere che i cinesi stanno meglio: non è una consolazione ». Il premio Nobel Angus Deaton, un altro studioso delle diseguaglianze, aggiunge un’autocritica personale che si estende a molte élite intellettuali: «Mentre in America aumentano i suicidi dei nuovi poveri, io come molti accademici faccio parte dei beneficiati dalla globalizzazione: ha allargato il mercato per i miei servizi. Quelli fra noi che esprimono giudizi su questi fenomeni economici, non sono gli stessi che ne subiscono i costi».
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