Orlando: «Pannella, lo scomodo necessario»
Le carceri sono un luogo in cui si realizza un esorcismo: segregati i pericolosi, l’ordine è ristabilito. Come se la società fosse una cosa totalmente diversa, e i suoi problemi fossero diversi da quelli che si riversano sul carcere: un’altra delle cose che ci ha insegnato Marco Pannella
L’ultima volta che si sono visti è stato lo scorso 26 marzo. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando era andato a trovare Marco Pannella da giorni «ristretto» per la malattia nella sua casa-studio di Roma. Era d’accordo con chi lo accudiva, ma all’insaputa del leone malato. La sorpresa, oltre alla visita del Guardasigilli, era la compagnia: Orlando era accompagnato da quattro detenuti del penitenziario romano di Rebibbia, due ragazze e due uomini, dal vicedirettore del carcere e dalla vicedirettrice del femminile.
C’è una bella foto che testimonia l’allegria di Pannella per quella visita «dei detenuti e dei detenenti, così aveva detto», ricorda Orlando, «me l’aveva proposta Rita Bernardini. Mancava poco a Pasqua, per la prima volta dopo molti anni Pannella non riusciva ad andare a visitare i detenuti durante le feste. E allora gliene abbiamo portato alcuni a casa. Lui parlava a fatica ma era stato illuminato da questa “splendida riunione”, così l’aveva chiamata. Aveva parlato di speranza in quel suo modo torrenziale, e in stretto dialetto abruzzese».
Ministro, chi era Pannella per lei quand’era un giovane militante della sinistra?
Vengo da una famiglia di comunisti che ha vissuto gli anni 70, quelli del terrorismo, della vicenda di Toni Negri (allora leader di Autonomia operaia, condannato per complicità con le Br, poi eletto con i radicali e rifugiato in Francia grazie all’immunità, ndr), che guardava i radicali magari come compagni di strada nelle battaglie per i diritti civili, ma per tutto il resto con enorme diffidenza, conseguenza anche delle loro provocazioni. Una diffidenza che spingeva a contrapporre in modo talvolta frontale diritti civili e sociali. Ho capito fino in fondo l’insufficienza di questa lettura quando ho cominciato a occuparmi di giustizia. Non solo perché il superamento di questa contrapposizione ha segnato tutta la sinistra storica, superando retaggi ideologici, ma anche perché abbiamo capito che il tema dei diritti è un tutt’uno nella trama della società.
Invece, da ministro, chi è stato per lei Pannella?
Prima da responsabile giustizia del Pd e poi da ministro ho apprezzato che i radicali, e Pannella innanzitutto, si sono seduti qualche volta dalla parte del torto, altre dalla parte della ragione, ma comunque non hanno mai scelto dove sedersi per ragioni di opportunismo. Perché ritengono che la loro missione sia rivendicare uno spazio di libertà anche dove si registrano alti tassi di conformismo, soprattutto nei tornanti importanti della nostra storia. Soprattutto dove ci sono quelli più difficili da difendere, le persone oggetto dello stigma sociale. Ho capito l’importanza del loro controcanto che si basa sul riconoscimento della dignità delle persone a prescindere dalla condizione e dal loro vissuto.
Da ministro ha avuto rapporti complicati con Pannella?
Quello che rende difficile il rapporto con i radicali, è il fatto che Pannella ha insegnato loro di rifiutare l’idea gradualistica. Ha sempre posto le questioni con intransigenza. Per me, che concepisco la politica invece come riforme e magari anche come piccoli passi successivi, avere a che fare con loro è sempre complicato: perché è difficile tenerli in squadra. Ma ho capito che segnare la posizione estrema è un modo per ricordare la direzione di marcia, per evitare che ci si accontenti del compromesso. Che è sempre necessario, ne sono convinto, ma non può mai essere considerato un punto di arrivo.
Poi però l’anno scorso lei fece un discorso inedito per un Guardasigilli, a proposito delle carceri che rischiano «di produrre crimine più che ridurlo». E lì Pannella le fece grandi complimenti.
Naturalmente poi i radicali mi hanno contestato per non aver tratto tutte le conseguenze della mia affermazione. Ma per me quella è stata una medaglia, tanto quanto gli obiettivi quantitativi raggiunti e i riconoscimenti internazionali del lavoro che abbiamo fatto. Vede, io vengo descritto come un politico prudente, cauto; e invece in quell’occasione aver incrociato il suo punto di vista è stata la conferma di aver posto una verità scomoda. Cosa che poi ho verificato concretamente nei mesi successivi.
Perché?
Perché parlare di carcere non porta consenso, non è glam, non dà ritorni di immagine in una società, la nostra, profondamente spaventata ed esposta agli imprenditori della paura. Senza nessuna ambizione eroica ho capito che quel riconoscimento era il segno che stavo provando a fare cose giuste. Governare non può essere solo ricerca di consenso facile ma anche farsi carico di persone che non hanno voce, possibilità di incidere, né forse rilevanza politica.
Subito dopo sono arrivate le critiche dei radicali, anche nel corso degli Stati generali dell’esecuzione penale.
(Sorride) È l’ineluttabile condizione di chi interloquisce con i radicali. All’inizio pensavo che non si facevano carico delle compatibilità, dei punti di partenza. Ma ora penso che la loro forza è quella di non farsi imprigionare dalle condizioni date, dal senso comune, dagli elementi di inerzia del sistema. Le loro polemiche, per quanto provocatorie, non sono mai fini a se stesse. Quel po’ che siamo riusciti a fare, che per me è molto, è anche frutto del loro stimolo.
Su alcuni aspetti della società italiana i radicali hanno ’fatto egemonia’, hanno vinto anzi convinto, come diceva Pannella: su aborto, divorzio, diritti civili. Sulla giustizia invece no: oggi il dibattito pubblico è spesso segnato da un profondo giustizialismo. Quella del garantismo è una battaglia che non hanno vinto, o ancora vinto?
È la battaglia più difficile in questo momento. La nostra è una società che resiste a riconoscere diritti che hanno un carattere così lontano dal senso comune. Ma il valore e la credibilità dei radicali sta proprio nel fatto che hanno saputo fare battaglie nella direzione dei tempi ma anche battaglie controvento con la stessa determinazione.
Anche lei frequenta spesso le carceri. Cos’era Pannella per i detenuti?
Un idolo. I quattro che gli ho portato a casa, in quella visita di marzo, erano emozionatissimi. Per venire hanno rinunciato al giorno di permesso. Ma Pannella è un idolo per tutto il mondo del carcere, la polizia penitenziaria, dottori, psicologi. Tutti, diceva lui, «condividono una comunità di destino». Ed è un idolo perché in questi anni, insieme a papa Francesco, è stato l’unico a tenere accesi i riflettori su un mondo su cui la società preferisce spegnerli. Perché le carceri sono un luogo in cui si realizza un esorcismo: segregati i pericolosi, l’ordine è ristabilito. Come se la società fosse una cosa totalmente diversa, e i suoi problemi fossero diversi da quelli che si riversano sul carcere. Un’altra delle cose che ci ha insegnato.
Marco Pannella lascia un’eredità, oppure un vuoto?
Entrambe le cose, perché mentre il riconoscimento di alcuni diritti, spinti dalla trasformazione della società, è un campo arato che continuerà a dare frutti, penso alla recente legge sulle unioni civili, sui diritti più scomodi, sulle battaglie meno corrispondenti al senso comune, quelle in contrasto con ogni demagogia, non vedo molte figure in grado di colmare quel vuoto e di portare le denunce e la testimonianza sino al punto in cui ha saputo portarle Marco Pannella
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