by Marta Strinati, il manifesto | 15 Maggio 2016 8:42
Big Food sapeva da 12 anni che l’olio di palma usato negli alimenti porta con sé contaminanti tossici e cancerogeni. Dai documenti delle autorità e delle multinazionali del cibo emerge chiaramente che i rischi correlati al consumo dello scadente grasso vegetale erano noti. Che se ne è parlato a lungo in quegli ambienti, ma senza porre rimedio.
A diffondere le slide del Palma-Leaks è GIFT Great Italian Food Trade[1], un portale web in 8 lingue, che promuove nel mondo il cibo made in Italy di qualità, sostenibile e accessibile. “Non serve scomodare Julian Assange, basta una breve ricerca sul web per scoprire che Big Food sapeva dei rischi correlati al consumo di olio di palma. Tuttavia, all’insegna del maggior profitto, ne ha incrementato l’utilizzo, raddoppiandolo in pochi anni”, dice il fondatore del portale, Dario Dongo, avvocato esperto di sicurezza alimentare, autore della petizione per bandire l’olio di palma dagli alimenti, lanciata assieme al Fatto alimentare e sostenuta da 176mila firme.
Le prove raccolte da GIFT parlano chiaro. La prima traccia sulla tossicità del palma risale al 2004, quando l’Università di Praga descrive la presenza di contaminanti tossici (3-mpcd) negli alimenti trasformati. Dopo tre anni il Centro per la sicurezza alimentare di Stoccarda (CVUA), analizza 400 alimenti e scopre livelli significativi di contaminanti tossici nei prodotti contenenti olio di palma (prodotti per l’infanzia, cracker e barrette). Lo stesso anno, l’Autorità tedesca per la sicurezza alimentare evidenzia la necessità di ridurre le sostanze cancerogene negli alimenti per la prima infanzia.
A livello industriale, l’eco si manifesta 7 anni fa. Nel 2009, in due occasioni, i rappresentanti di Nestlé espongono ai convegni di categoria i rischi correlati all’olio tropicale. Gli atti di un convegno organizzato da Ilsi, un centro di ricerca di Bruxelles finanziato dalle multinazionali dell’alimentare, documentano che la presenza di contaminanti tossici è particolarmente elevata nell’olio di palma raffinato. Tutti sapevano. Ma hanno continuato a impiegare dosi sempre maggiori del pericoloso grasso tropicale, senza risolverne le criticità.
A farle emergere è stata l’Agenzia europea per la sicurezza alimentare (Efsa), che meno di due settimane fa, il 3 maggio 2016, ha pubblicato un corposo dossier in cui avverte che i contaminanti presenti nell’olio di palma sono cancerogeni e genotossici (i danni al Dna si trasmettono alla eventuale prole).
Per uno di questi (3-mcpd) l’Efsa ha fissato una soglia di tollerabilità di 0,38 microgrammi per chilo di peso corporeo: una dose oggi ampiamente superata dalla popolazione, in particolare da bambini, adolescenti e persino lattanti.
Dopo gli sforzi e gli investimenti pubblicitari spesi per riabilitare l’olio di palma, l’industria è al capolinea.
La combriccola dei produttori asiatici della materia prima e delle multinazionali alimentari che lo impiegano ha pure creato un marchio per l’olio di palma “sostenibile”, di dubbio significato, secondo la ong Supply-Change. Poi ha contrastato l’allarme contro il palma concausa di obesità, sostenendo che la dose fa il veleno, basta mangiare con equilibrio.
Ora ha finito gli argomenti.
Dopo il parere dell’Efsa ha giocato un ultimo tentativo di disinformazione: i contaminanti di processo sono anche in altri oli vegetali raffinati, ha provato a sostenere. Ma il dossier parla chiaro: nel palma ve ne sono da 6 a 10 volte di più.
Per lo scadente grasso tropicale è arrivato il momento della verità. Il primo giro è tutto uno scaricabarile. L’industria si rivolge al ministro della Salute. Il ministro Lorenzin passa la palla al commissario europeo. A Strasburgo i parlamentari cominciano a destarsi.
Le critiche al massiccio impiego di olio di palma negli alimenti industriali, del resto, non sono nuove. Nell’opinione pubblica hanno registrato un coinvolgimento crescente, via via che i danni correlati hanno stretto il cerchio e si sono fatti più vicini.
All’inizio, circa 6 anni fa, si lottava contro le coltivazioni delle palme da olio nei paesi tropicali per il loro impatto distruttivo sull’ambiente e sulle comunità locali, che pagano per primi il prezzo del lucroso business, subendo soprusi ben documentati dalle ong contro il land grabbing (la rapina delle terre), soprattutto in Africa e Sud-est asiatico. Le dimensioni del fenomeno sembrano incontenibili: tra il 2008 e il 2014, nei paesi in via di sviluppo gli investitori stranieri hanno conquistato 56 milioni di ettari di terre, un’estensione pari alla Francia.
Alla fine del 2014, con l’entrata in vigore del regolamento europeo 1169/11 che impone trasparenza sulle etichette alimentari si è scoperto che l’olio di palma (fino ad allora nascosto in etichetta sotto l’enigmatica dicitura “grassi o oli vegetali”) è dappertutto. È aggiunto nei biscotti, nei cracker, nelle merendine. È usato in ristoranti, pizzerie, friggitorie e fast-food, pasticcerie. Sta nei dadi, nei piatti pronti, persino nelle bevande servite al bar, come il “caffè al ginseng”. Anche in molti prodotti biologici.
Una pervasività che ha acceso l’attenzione sul consumo eccessivo e sui rischi correlati (obesità, diabete e malattie cardiovascolari). L’olio di palma contiene infatti almeno il 50% di grassi saturi, la stessa quantità del burro, ma a differenza di quest’ultimo è insapore ed economico, quindi pressoché onnipresente. Secondo il parere espresso due mesi fa dall’Istituto superiore di sanità, in Italia ne assumiamo ben 12 grammi al giorno. E i bambini superano del 49% la dose giornaliera di grassi saturi, proprio a causa del consumo elevato di prodotti contenenti olio di palma.
Ma le foreste pluviali sono lontane e i grassi saturi fanno poca paura. Sapere che un alimento tanto mangiato dai bambini contiene sostanze che provocano il cancro rimette ora al centro la battaglia contro il palma.
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