by Francesco Battistini, Corriere della Sera | 16 Maggio 2016 10:19
A Sirte, a Sirte! Con poche strategie e molte chiacchiere, a sconfiggere l’Isis adesso ci vogliono andare tutti. Vuoi mettere? Chi ce la fa, diventa l’eroe dell’Occidente. Il baluardo dell’Europa. Il Peshmerga della Libia che difende tutti noi e può quindi chiedere al mondo più armi, più considerazione, un investimento politico.
Tutti a Sirte, allora. Il generale Khalifa Haftar è stato il primo a radunare i soldati e a lanciarsi col suo Libyan National Army, Lna. Il premier Fayez Al Serraj è stato l’ultimo a capire che l’obbiettivo è simbolico, il risultato appagante, e una settimana fa pure lui ha creato una «coalizione delle milizie» di buona volontà (poche) per combattere «tutt’insieme» (leggi: quasi nessuno) lo Stato Islamico. In mezzo si sono mossi anche i militari di Misurata, tra i pochi che hanno davvero le armi, e i loro alleati islamisti di Alba libica. Per non dire delle tribù che circondano Sirte. O del Signore dell’Oro Nero, Ibrahim Jadhran, che sotto Sirte controlla i pozzi e qualche giorno fa l’ha detto ai suoi: «In un piccolo pezzo di terra ci giochiamo il futuro d’un intero Paese».
Quanta retorica. In un Paese (anzi, tre) che ha quattro governi e due Parlamenti — con un deficit al 54% del Pil, riserve di denaro in esaurimento entro due anni, quasi 5 mila morti, 435 mila sfollati, un tasso d’omicidi che è dieci volte quello egiziano e 17 quello tunisino, il 40% della popolazione che ha bisogni umanitari e il 60% degli ospedali distrutto — qualcuno pensa davvero che la priorità del libico medio sia combattere l’Isis? L’unica cosa evidente ai governi occidentali è che non tocca a loro. L’unica cosa sicura è che, nel caso tocchi ai libici, lo farebbero ognuno per sé e tutti contro tutti. «Una vergogna», commenta l’ Economist . «Un rischio troppo grosso», dice una fonte diplomatica italiana: «Il primo, vero pericolo di un’eventuale avventura militare occidentale è proprio questo: l’assenza di un’alleanza sul terreno».
L’armiamoci-e-partite era già sottinteso nella risoluzione 2259 dell’Onu, dove si stabiliva come un intervento armato internazionale potesse venire richiesto solo dal governo Serraj. E se il mite Serraj rimane paralizzato tanto dal veto d’egiziani ed Emirati, i burattinai di Haftar, quanto dalla diffidenza di Tripoli? «L’Italia, che non ha mai amato granché Haftar, corteggiato invece dai francesi, non poteva certo mostrare simpatie per la Fratellanza musulmana. È normale, oggi, che non possiamo contare su nessun autentico alleato…».
Inaffidabili i tripolini e i misuratini, scaricati per necessità internazionale, prima in favore del governo riconosciuto di Tobruk e poi di Serraj. Irritabili quelli di Tobruk che non hanno mai digerito la nostra ambasciata a Tripoli, nonostante non ne riconoscessimo la legittimità. E irrecuperabile, almeno all’apparenza, il rapporto con Haftar che per un anno ci ha chiesto armi e soldi: l’Egitto è una variabile di questo scenario militare e «la pace — spiega un deputato di Tobruk — può partire solo su ordine del Cairo, dopo una ricucitura dell’Italia sul caso Regeni». Chi credete ci sia dietro i nostri tricolori bruciati in tutta la Cirenaica, le scorse settimane? E sapete come si chiama l’operazione militare che il Generalissimo ha intrapreso verso Sirte? Al Qurdabiya. Esattamente come quella che i libici scatenarono contro l’invasore italiano, nel 1915…
Nessun amico, nessun nemico. La mancanza d’alleati sicuri, per l’Italia, si porta dietro un altro pericolo: chi dovremmo combattere? L’Isis, d’accordo. Ma dalla Tripolitania o dalla Cirenaica? «Non sappiamo nemmeno quale possa essere il fronte», dice la voce diplomatica: «A una guerriglia asimmetrica, contro autobombe e attacchi terroristici, dovremmo unire una guerra a milizie che in una zona sono amiche degli amici e, in un’altra, diventano amiche dei nemici». A Zintan, per esempio: dove sostengono militarmente Haftar, ma non tutti sono d’accordo con un suo ruolo politico, mentre alla lotta all’Isis antepongono quella a Tripoli…
Tanta confusione spiega la cautela degli americani — che in Iraq hanno inviato 5 mila soldati e in Libia meno di 50 uomini in sei mesi — dovuta non solo alla scarsa voglia di farsi coinvolgere: al Pentagono sanno bene che una campagna militare è tutta da studiare. Forse pure il resto d’Occidente — dagl’inglesi che hanno on the ground un centinaio di gruppi speciali Sas, ai francesi asserragliati nell’aeroporto di Bengasi — va capendo: «Gli europei hanno ciò che volevano, un governo Serraj formalmente d’unità nazionale — dice in un suo rapporto l’analista Mattia Toaldo, uno dei maggiori esperti sul tema —. Ora non dovrebbero farsi carico di richieste irrealistiche, dalla fine della crisi dei migranti alla sconfitta dell’Isis. Piuttosto, dovrebbero lavorare per rafforzare la politica del governo Serraj nel controllo del Paese».
Già, il governo che non c’è. Il pericolo maggiore. Come il controllo dei pozzi o la fine dell’embargo sulle armi: due passi necessari, prima di marciare a sconfiggere l’Isis. Non c’è campagna militare, senza un interlocutore politico. E nessuno mette gli scarponi nel fango, finché il premier non si sporca i mocassini nemmeno nelle strade di Tripoli.
Francesco Battistini
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