by CHIARA SARACENO, la Repubblica | 25 Maggio 2016 9:53
UN ANZIANO di 84 anni residente in provincia di Lucca ha tentato di uccidere a martellate la moglie di 82 anni, malata di Alzheimer; poi ha cercato di uccidersi a sua volta. Non è l’ennesimo caso di violenza sulle donne né di tentato femminicidio. Piuttosto è la testimonianza della solitudine drammatica in cui si trovano molte anziane coppie in cui un grande anziano, spesso anch’egli/ella in salute malandata, e comunque in condizioni di fragilità fisica e psichica, deve fronteggiare senza, o con pochi, aiuti la dipendenza grave di un coniuge. Dal sopportare di non essere riconosciuto/ a e talvolta insultato/a, a dover provvedere ad ogni minimo bisogno della vita quotidiana, inclusa l’igiene personale in caso di incontinenza, passando notti insonni perché l’altro/a si lamenta, scambia la notte per il giorno, ha paura, si sporca e deve essere cambiato.
Statisticamente sono più spesso le donne, le mogli, a trovarsi in questa condizione, data la differenza di età e la più lunga longevità femminile. Ma può capitare anche a uomini, mariti, che si trovano così a fronteggiare bisogni, a dover mettere in atto pratiche di cura cui non sono mai stati abituati, proprio nelle circostanze più penose e sgradevoli, e quando loro stessi avrebbero bisogno di accudimento.
Uomini o donne che siano, troppi grandi anziani passano gli ultimi anni della loro vita in un gorgo senza fine di richieste e di umiliazione, imprigionati con un coniuge del quale è sempre più difficile ricordare, per farsi forza e motivarsi a continuare, l’amore, la solidarietà, l’allegria, ciò che si è fatto insieme, anche quando ci sono stati e sono stati belli e importanti. La massacrante routine quotidiana fatta di bisogni minuti e di richieste fisicamente e psicologicamente pesanti non lascia spazio altro che alla disperazione, che può trasformarsi in rancore.
L’aiuto dei figli (più spesso figlie), quando c’è, è importante e aiuta a tirare avanti. Ma i figli hanno anche una loro famiglia e talvolta vivono altrove. Non ci si può neppure attendere che lascino tutto per dedicarsi a tempo pieno alla cura dei genitori fragili e dipendenti, anche se alcune lo fanno, pagandone prezzi altissimi di breve e lungo periodo sul piano del benessere individuale e della loro famiglia, a livello economico, ma anche organizzativo e psicologico.
Il welfare italiano ha lasciato queste situazioni, in inevitabile aumento stanti i fenomeni di invecchiamento e l’innalzamento delle speranze di vita, pressoché esclusivamente alle risorse individuali e famigliari — economiche innanzitutto, ma anche di rete famigliare. Se viene accertata una disabilità e una non autosufficienza totale (ma l’Alzheimer e l’incontinenza da soli non bastano), c’è l’assegno di accompagnamento. Ma nessuno si cura di vedere se il beneficiario riceve cure appropriate e se la sua rete famigliare è materialmente in grado di fornirle. Chi può, usa l’indennità per pagare qualche ora di cura.
Il fenomeno del ricorso alle badanti, nella sua ampiezza, è tutto italiano. Ma riguarda pur sempre una quota ridotta delle persone non autosufficienti e ancora più esigua se si tratta di tempo pieno. Per quanto si tratti spesso di un lavoro sottopagato, non tutti possono permettersi di acquistarlo, o di acquistarne una quantità di ore sufficienti, soprattutto la notte. Le residenze sanitarie, oltre a non godere sempre di buona fama e ad essere considerate, anche per motivi culturali, l’ultima spiaggia di chi non ha famigliari disponibili all’accudimento a tempo pieno, hanno lunghe liste d’attesa.
Il risultato è che le persone più vulnerabili e con meno risorse sono prive di alternative. Un coniuge anziano di una persona non autosufficiente si trova costretto a turni, non solo di guardia, ma di lavoro, di 24 ore, interrotte, se gli/le va bene, più o meno sporadicamente da qualche aiuto. I suoi bisogni fisici e psicologici passano in secondo piano, quando non spariscono del tutto, senza che sia affatto provato che le cure che presta e il modo in cui lo fa siano le più adatte.
Anche nei contesti più attenti e ricchi di servizi, è difficile che si attuino verifiche sull’esistenza di bisogni nascosti, anche se gravi. Non si va a vedere come se la cava una coppia di ultraottantenni di cui uno non è autosufficiente. Non c’è scambio di informazioni sistematico tra medici di base e servizi sociali, ad esempio. Non c’è da stupirsi se ogni tanto qualcuno non ce la fa più e prende un martello o altra arma impropria. Piuttosto c’è da stupirsi e rimanere commossi della dedizione di tanti coniugi nell’accompagnare anche per diversi anni il doloroso declino del proprio compagno/a, nonostante la fatica e talvolta il senso di umiliazione e di mancanza di riconoscimento che caratterizza le situazioni in cui la non autosufficienza fisica si accompagna al deterioramento psichico. Tutta presa a discutere del costo sul bilancio pensionistico e sanitario dell’invecchiamento della popolazione, l’Italia continua pervicacemente a ignorare i bisogni degli anziani fragili e soprattutto dei loro famigliari, spesso grandi anziani essi stessi. Eppure, questo settore sarebbe un grande ambito di lavoro specializzato, sia a livello tecnologico sia delle relazioni umane, in cui investire in modo integrato e solidaristico risorse pubbliche e private, per evitare che, anche in questa fase delicata e difficile della vita, le disuguaglianze facciano premio su tutto.
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