by Michele Farina, Corriere della Sera | 31 Maggio 2016 9:48
Seviziava le vittime di persona, in una grande piscina trasformata in mattatoio. Oppure consigliava la tortura più opportuna al telefono o via walkie-talkie. Elettroshock, bruciature di sigarette, gas sparato negli occhi, il «numero della baguette »: la testa stretta tra due bastoni legati con una corda che, attorcigliandosi, produceva una sorta di panino dell’orrore. Oggi Hissène Habré ha 73 anni: ha studiato e mangiato baguettes in Francia, ha preso il potere con l’aiuto della Cia, ha combattuto Gheddafi per conto dell’Occidente, ha governato il Ciad dal 1982 al 1990 ordinando en passant l’uccisione di 40 mila persone, prima di essere deposto e fuggire in Senegal. Dove ieri — lui solo — è stato condannato all’ergastolo: per crimini contro l’umanità, violenza sessuale, messa in schiavitù di donne e bambine. A giudicarlo, «per conto dell’Africa», tre magistrati con l’ermellino sul petto e il mandato della Extraordinary African Chambers (Eac), tribunale senegalese sostenuto dall’Unione Africana (Au). Un ibrido giuridico, una prima volta importante: nessun ex presidente africano era mai stato processato in Africa, da un tribunale sostenuto dall’Africa (anche se finanziato in parte da Ue e Usa), per violazione dei diritti umani.
Urla di gioia hanno accolto la sentenza al tribunale di Dakar: una sala a due piani, gremita, dove nei mesi scorsi si sono susseguiti più di 90 testimoni. Quattro donne hanno avuto il coraggio di raccontare la loro vita da schiave sessuali in una base nel deserto, guardando in faccia il violentatore: una aveva 13 anni quando fu stuprata dal presidente (che ha rigettato le accuse bollando le donne come «prostitute ninfomani»). A celebrare la condanna di quello che i detrattori chiamano «il Pinochet africano» c’erano vittime, familiari, sopravvissuti, avvocati delle oltre 4 mila parti civili. A salutare Habré — fieramente vestito di bianco, occhiali da sole e turbante da uomo del deserto — pochi ma agguerriti sostenitori. Meno che in passato: l’ex presidente che fu ricevuto da Reagan alla Casa Bianca fu deposto da un consigliere, Idriss Deby, che un quarto di secolo dopo (coccolato dall’Occidente) è ancora al potere a N’Djamena. Anche il Ciad, dove la gente è scesa in strada a festeggiare la sentenza, ha appoggiato l’istituzione del «tribunale ibrido» e il processo al vecchio leader.
Un caso di «giustizia dei vincitori»? Per Reed Brody, l’attivista di Human Rights Watch che ha lavorato 17 anni al dossier Habré, quella di ieri è «una data che passerà alla storia: il giorno in cui un gruppo di indomiti sopravvissuti hanno portato alla giustizia il loro aguzzino».
In Africa. E pensare che nel 2005 fu una corte belga a spiccare il primo mandato di arresto. Il Senegal si rivolse all’Unione Africana. Che chiese a Dakar di processare Habré «per conto dell’Africa». Non è un caso che i Paesi della Au negli ultimi anni abbiano tolto il sostegno alla Corte penale internazionale (pur facendone parte). La Cpi è vista come la longa manus degli ex colonialisti. Così il presidente sudanese Bashir gira il continente impunito e riverito, malgrado il mandato di cattura per crimini contro l’umanità che pende dall’Aja. Il processo Habré ha aperto una strada? Altri leader africani saranno chiamati a rendere conto del loro operato in Africa, possibilmente non dopo un quarto di secolo?
Michele Farina
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