by Lorenzo Cremonesi, Corriere della Sera | 31 Maggio 2016 9:21
Abitazioni basse, squadrate, molte costruite in cemento grezzo con le traversine di ferro che spuntano dai tetti. Al centro i vicoli stretti dell’antico mercato, ma anche gli edifici più ampi dell’ex regime baathista di Saddam Hussein gravemente danneggiati dai combattimenti contro gli americani. Alla periferia villone cintate da mura alte e campi coltivati intervallati dai canali d’acqua presa dall’Eufrate, che contribuiscono a dissetare Bagdad 70 chilometri a est. E’ il teatro della nuova battaglia per Falluja contro i jihadisti del Califfato. Uno scenario tristemente noto, eppure ricco d’incognite per l’esercito iracheno sostenuto dagli americani, che garantiscono la protezione aerea e hanno inviato truppe speciali.
La novità delle ultime ore è che le avanguardie irachene sono riuscite a raggiungere i quartieri meridionali della città, specie quello di Naimyia, che dista circa 500 metri da Al-Shuhada, ribattezzato in memoria dei «martiri» uccisi nella «resistenza» anti-Usa iniziata nell’aprile 2004, dopo il linciaggio di quattro contractors americani. Difficile oggi districarsi tra i bollettini della propaganda. Certo è che Falluja per gli iracheni resta una città-simbolo dei drammi seguiti all’invasione americana del 2003. Isis vi ha trincerato centinaia di guerriglieri, il loro numero varia da 700 a 1.500 a seconda delle fonti. Molti volontari stranieri tra i jihadisti duri e puri.
Eppure, la maggioranza sono ex-baathisti, soldati e ufficiali del vecchio esercito di Saddam, oltre ad un gran numero di giovani locali. Da Bagdad i portavoce del governo di Haider Al-Abadi parlano anche di «50.000 civili rimasti in città e usati come scudi umani da Isis». Una piccola frazione dei quasi due milioni di abitanti solo sedici anni fa. Ma non va dimenticato che in realtà proprio Falluja è storicamente il cuore pulsante dei sunniti militanti. Più di Tikrit, che pure è la città natale del clan di Saddam; più di Ramadi, il capoluogo di Al-Anbar, la regione sunnita che dai quartieri occidentali di Bagdad si estende verso Siria, Giordania e Arabia Saudita.
Le autorità irachene hanno dispiegato circa 30.000 soldati, più o meno lo stesso numero usato per riprendere Tikrit e Ramadi negli ultimi mesi. Come già in passato, Al-Abadi tiene a sottolineare che le sue forze non sono «settarie», bensì super partes, sciiti e sunniti dell’esercito regolare. In verità, proprio questo è il nocciolo del problema. Isis, e prima di questi Al-Qaeda, prospera dal malcontento della minoranza sunnita contro la maggioranza sciita. Dopo l’invasione americana furono le milizie estremiste sciite vestite con le uniformi militari ad attaccare i sunniti in modo violento ed arbitrario, scatenando la furia della guerra civile e del fondamentalismo wahhabita. Di conseguenza, non furono pochi gli abitanti di Falluja ad accogliere festanti come liberatori i tagliagole di Isis che il 4 gennaio 2014 fecero irruzione nelle sue strade, ben cinque mesi prima della loro presa di Mosul.
Da allora l’integralismo intollerante di Isis, le decapitazioni pubbliche, le difficoltà economiche, hanno largamente raffreddato il consenso nei suoi confronti. Ma va anche aggiunto che le milizie sciite, unite all’attiva presenza delle unità di Pasdaran inviate dall’Iran, continuano a sollevare l’ostilità sunnita. Non a caso le famigerate «Hashid Shaabi» (le milizie sciite di «Mobilitazione Popolare» reclutate a Bagdad e nel sud) sono al momento impiegate solo come retroguardie per pattugliare le zone appena liberate. La battaglia comunque è solo all’inizio.
Gli stessi comandi iracheni paventano una forte ondata di attentati suicidi e l’utilizzo di trappole bomba da parte di Isis. L’enorme numero di cariche inesplose a Ramadi la rende tutt’oggi una città fantasma. Falluja potrebbe risultare talmente minata da bloccare per lungo tempo l’avanzata nel centro.
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