«Europa a più velocità», torna la tentazione tedesca: Italia nel nucleo centrale e consultazioni dei cittadini

«Europa a più velocità», torna la tentazione tedesca: Italia nel nucleo centrale e consultazioni dei cittadini

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«Il processo di integrazione europea è oggi messo in discussione da molti. Viene visto come una questione gestita da un’eurocrazia di Bruxelles senz’anima e senza volto, noiosa nel migliore dei casi, pericolosa nel peggiore». Sono parole di un leader tedesco di primo piano. Secondo lui «sarà molto difficile risolvere i problemi dell’Europa nel quadro attuale», dunque è tempo di selezionare «un’avanguardia: un gruppo di Stati, un nucleo avanzato dell’integrazione europea».

Joschka Fischer parlava così quasi esattamente sedici anni fa alla Humboldt-Universität di Berlino, quando era ministro degli Esteri. Ieri a Roma Angela Merkel è stata più scarna e concreta: «L’Unione Europea si trova in una fase molto fragile, ma è il nostro futuro. Dobbiamo imparare a gestirlo insieme».

Quella di Fischer era l’epoca di una Ue sicura di sé, in piena crescita dopo il varo dell’euro e già al lavoro per assorbire nuovi Paesi sul fianco Est. Questa di Merkel è l’Europa della doppia recessione, separata in casa con Polonia e Ungheria, politicamente divisa lungo il valico del Brennero, minacciata dal referendum sul divorzio di Londra dall’Unione. Proprio dopo il passaggio della Gran Bretagna dalle urne però il seme della vecchia idea di Fischer potrebbe riemergere. Qualcuno a Bruxelles la chiama «unione politica», o «Europa a più velocità», con al centro un gruppo di Paesi pronti a procedere verso una frontiera più avanzata sui migranti, sull’euro e soprattutto su robuste istituzioni comuni: probabilmente i sei fondatori, Francia, Germania, Italia, Olanda, Belgio e Lussemburgo, più Spagna, Portogallo e chiunque voglia unirsi a condizioni indicate prima. Austria e Finlandia, se vorranno.

Non è un piano definito, ma è un’idea ben presente e attiva nel governo tedesco sedici anni dopo Fischer. Né è peraltro un progetto che in Italia si rifiuti a priori, benché l’attuale battaglia voto per voto sulla secessione europea in Gran Bretagna sia il momento peggiore per parlarne in pubblico.

È poco chiaro, a prima vista, perché dovrebbe decollare ora ciò che non ha funzionato ai tempi più facili di Fischer. Oggi la Spagna è senza governo da quasi sei mesi; in Francia il Front National di Marine Le Pen guida i sondaggi; il presidente della Bundesbank Jens Weidmann ha appena compiuto a Roma la sua missione all’estero più controversa di sempre; e il presente dell’Unione bancaria è incerto almeno quanto il futuro dell’euro. La storia non sembra dalla parte di un progetto di unione politica fra Stati, tantomeno in vista delle elezioni del 2017 in Francia e Germania.

A Bruxelles come a Berlino questi problemi sono ben presenti. Ma proprio il fatto che un nucleo duro di Stati europei oggi suoni così inattuale può tenerne in vita la prospettiva. Nelle capitali dei Paesi fondatori del 1957 si è capito che l’Europa si sta avvicinando all’orlo della disintegrazione, se non muove un passo in direzione opposta. Lo stesso rifiuto di rivedere le regole dell’asilo politico e condividere i sacrifici sui migranti, appena confermato da Budapest, Praga o Varsavia, è stato letto come un segnale: la Ue nel formato di oggi è troppo disomogenea per rispondere alle richieste dei suoi abitanti. L’equilibrio attuale non può più tenere a lungo.

Il nuovo progetto potrebbe partire con una fase di consultazione dei cittadini, sulle loro richieste, attraverso sondaggi o incontri pubblici, città per città. Ma resteranno da convincere sulle realtà dell’«unione politica» in primo luogo i governi più aperti ad essa.

L’Italia, che non vuole farsi indicare il bilancio pubblico da Bruxelles. La Germania, che continua a bloccare i passi essenziali dell’Unione bancaria perché teme di dover pagare per le fragilità degli altri. Ai tempi di Joschka Fischer, sembrava tutto così piacevolmente più vago.



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