«Giardini, cultura e pazienza» La cura di Piano per Marghera

«Giardini, cultura e pazienza» La cura di Piano per Marghera

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«Marghera sensa fabriche saria più sana / ‘na giungla de panoce, pomodori e marijuana». La facevano facile, quei genialacci burloni dei Pitura Freska. Ma risanare l’immensa area industriale veneziana e il suo quartiere non sarà semplice, non sarà economico, non sarà rapido. Basti un dato: nei circa duemila ettari di Porto Marghera, dicono i rapporti, sarebbero stati interrati «sette milioni e mezzo di metri cubi di fanghi tossici e nocivi» di cui un milione e mezzo «molto pericolosi».

«Va introdotta la dimensione della pazienza», sospira Renzo Piano, passeggiando lungo via Fratelli Bandiera, la «main street» del quartiere, mentre rombano uno dopo l’altro i Tir e si offrono una dopo l’altra le infelici sbattute sulla strada dai papponi in pieno giorno. «Va accettata l’idea che ci vorranno decenni o secoli per recuperare certi luoghi stuprati dall’inquinamento. Non accetto, però, l’idea che non ci sia “più niente da fare”. Che esistano posti irrimediabilmente perduti. Ci vuole tempo. Pazienza. Ma se non cominciamo…».

Certo, in questa epoca che chiama «antropocene» sulla scia del premio Nobel Paul Crutzen per definire un’era «marcata dall’uomo cieco verso la natura», sa di non avere la bacchetta magica: «I miracoli non siamo in grado di farli. È chiaro che per ripulire i siti più corrotti non basta piantare acacie o salici perché avviino una lenta fito-rigenerazione». Tanto più che la politica, distribuiti i complimenti rituali («Bravissimi, andate avanti») non ha voglia di metter soldi in progetti che si confermeranno giusti fra decenni: le elezioni sono fra una settimana, un mese…

Di cose da fare, però, ce ne sono mille: cambiare la legge che oggi dà per irrimediabilmente defunte certe aree prevedendo solo mega-maxi-progetti costosissimi (è lì che girano soldi) dove si grattano i terreni «fino a 8 metri di profondità se non 16 come a Sesto» e non consente neppure l’avvio di un risanamento «naturale» previsto in Paesi non meno stressati dall’inquinamento come la Germania. E avviare la fito-rigenerazione almeno sui terreni infetti ma non troppo. Come un’area comunale abbandonata. Di più: «Dobbiamo piantare semi vegetali ma anche culturali. Perché, come spiega Italo Calvino ne Le città invisibili , l’inferno dei viventi, “se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme”. Ma puoi “accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più” o “riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”». Il senso del «rammendo delle periferie». Gianfranco Bettin, il presidente della Municipalità, plaude: «Il solo fatto che Renzo Piano punti i fari su Marghera per noi è ossigeno. Sia per le sue idee sia perché illumina una realtà spesso in ombra».

Partito il primo anno con tre quartieri (Borgata Vittoria a Torino, Librino a Catania e il viadotto dei Presidenti a Roma) per poi passare al Giambellino a Milano («meglio concentrare gli sforzi: un’area alla volta»), il progetto di Piano che prende il nome G124 dalla stanza al Senato del «geometra» (copyright suo, auto-ironico) punta quest’anno appunto su Marghera. Dove con un tutor entusiasta (Raul Pantaleo) e una squadretta di giovani architetti motivatissimi (Laura Mazzei, Anna Merci, Nicola Di Croce), l’obiettivo è ambizioso. Mettere a segno piccoli-grandi interventi che dimostrino come sia possibile ricucire il rapporto tra una periferia «che non è affatto brutta» (il modello era la città-giardino di Letchworth, sia pure stravolta da palazzoni-alveari) e chi ci vive: «Anche nel posto più brutto c’è qualche angolo dove puoi vedere la bellezza. E Marghera, ripeto, non è una delle periferie più brutte».

Era arrivata ad avere 35.724 addetti, nel 1971, l’area industriale che ai tempi di Enimont avrebbe dovuto diventare la capitale della chimica mondiale. Anno dopo anno è andata giù, giù, giù… Vivendo parallelamente il dramma della perdita dei posti di lavoro e altri incubi. Come nel 2002 quando una fuoriuscita di peci clorurate nell’area Petrolchimico generò un incidente vicino a un serbatoio di fosgene che in caso di incendio, secondo la storica Laura Cerasi, «avrebbe ucciso parte della popolazione di Marghera, Mestre, Venezia e del territorio contermine».

«All’epoca ero un ragazzino, l’11 settembre era passato da poco più di un anno — ha scritto su Internazionale Pietro Minto —. Ricordo la paranoia del terrorismo. Ma Al Qaeda, si seppe poco dopo, non c’entrava: era solo il caro e vecchio Petrolchimico. Ricordo un surreale senso di sollievo che dimostra quanto il pericolo chimico, per chi vive a qualche chilometro da Porto Marghera, sia sempre stato una minaccia familiare, inevitabile…».

Cambia pelle, Marghera. Spiegava l’ultimo rapporto dell’Osservatorio voluto da Porto, Comune, Regione che, «malgrado la catena ininterrotta di chiusure delle grandi industrie chimiche e siderurgiche degli ultimi anni, nella zona industriale e portuale nel 2014 erano attive ancora 1.034 aziende operanti (-18% rispetto al 2013) che occupano complessivamente 13.560 addetti». L’80,7% delle aziende rilevate «occupa meno di 15 addetti, e oltre il 94% ne impiega meno di 50».

Qua e là, edifici assediati da erbacce, incuria, degrado. Ed è lì che il progetto O.r.ma. (Officine Riuso Marghera) punta a intervenire. Ridando vita a una scuola d’infanzia in condizioni penose per farne una scuola di musica gestita dall’Associazione «Nino Bocolo», cioè Adamo Vianello, «maestro» dei musicisti di Marghera dagli Anni 60 alla morte. O riscattando tra i «beni comuni», a uso del quartiere, l’ex istituto professionale «Edison» che da nove anni è stato abbandonato e oggi, dopo varie manifestazioni per chiedere un intervento del Comune, è sede di una palestra della Municipalità, un dormitorio Caritas e una dozzina di associazioni culturali che aggregano ragazzi intorno alle esibizioni di «parkour», a scuole d’artigianato auto-gestite, a corsi di lingue per stranieri o iniziative come «Ago e filò» che recuperano antiche tradizioni venete. Il tutto grazie a decine di volontari, giovani e meno giovani. Renzo Piano gironzola nel cortile di cemento, immagina il piccone per il muro di recinzione: «Giù quello, questo può diventare un giardino bellissimo». Angelo Pierobon, capelli «rasta», risata contagiosa, deciso con altri genitori ad arginare lo smottamento di un’area che fatica ad avere punti di riferimento, è entusiasta. Il «Geometra» ammicca: «Se no i xé mati no li volemo».



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