by Maurizio Caprara, Corriere della Sera | 29 Maggio 2016 10:28
KIEV « Le aziende si sentono più comode senza veterani», dice Leonid Ostaltsev, maglietta che lascia scoperto un esteso tatuaggio su una delle braccia robuste, viso virile e con barba, sguardo ombrato da una sottile malinconia. E’ seduto in un ristorante questo uomo di 29 anni. Nel parlare ripercorre un viaggio nella vita compiuto con conoscenti coetanei e più giovani, un tratto di esistenza impervio. «E’ difficile essere veterano, aver imbracciato il fucile, nel caso di più d’uno avere ucciso. I datori di lavoro vogliono persone senza problemi. E i veterani non lo sono», osserva. Per questo motivo il ristorante di Kiev in cui Leonid ci parla è gestito da lui con otto ucraini che, come lui e altri centomila connazionali, hanno impugnato le armi contro russi e miliziani filo-russi in una guerra tuttora in corso. Tolta la divisa, il lavoro per loro non c’era. Se lo sono inventato.
«Pizza Veterano» si chiama la pizzeria che Leonid Ostaltsev ha aperto sei mesi fa. La resa dell’impasto della farina è di qualità superiore alla media italiana. «Abbiamo cominciato in due e con trecento dollari in tasca, adesso il capitale sociale è di tre milioni. Uno degli scopi del nostro progetto è decriminalizzare i veterani. Inoltre aiutiamo figli di nostri compagni caduti. Tre volte la settimana, per beneficenza, portiamo pizze in un ospedale e a militari in transito nella stazione», racconta Leonid. Anche così può prendere corpo agli occhi di un forestiero a Kiev la guerra fra ucraini e filorussi che, mentalmente, siamo abituati ad archiviare tra i fotogrammi marginali dei telegiornali. La si percepisce in sue derivazioni diluite, diventate routine. Nel caso specifico, nella versione di una battaglia con le difficoltà che per tanti soldati continua dopo il ritorno a casa.
Non succede su Marte. Succede nel secondo Paese più esteso d’Europa dopo la Russia. In uno Stato, l’Ucraina, che pur essendo extracomunitario tiene su pennoni nella piazza Yevropeyskaya della sua capitale bandiere blu con le stelle dell’Unione Europea. Il Paese di circa 44 milioni di abitanti dal quale arriva la quinta comunità straniera residente in Italia, almeno 220 mila persone che sono in buona parte lavoratrici domestiche, badanti, gente di casa tra noi. Quasi altrettanti, 210 mila, sono in patria i loro connazionali che fino all’agosto scorso sono stati chiamati sotto le armi in sei ondate di mobilitazione. Soltanto gli sfollati rimasti all’interno del Paese vengono stimati in un milione. Altri ucraini si trovano al fronte, linea irregolare nella quale il «cessate il fuoco» stabilito negli accordi di Minsk del 2015 resta precario. Giovedì scorso, un giorno fra i tanti, tra entrambe le parti i caduti sarebbero stati in totale otto.
A suo modo, è un esempio fortunato quello della pizzeria nella quale una bomba a mano disinnescata rientra nell’arredamento. Nelle strade delle nostre città si incontrano lapidi con nomi di condannati a morte della Resistenza, cippi in memoria di caduti della guerra 1915-18. Nelle vie centrali di Kiev, le morti in scontri di piazza e nella guerra in corso non hanno avuto il tempo di produrre monumenti resi porosi dalle intemperie. Umidità e sole sono riusciti appena a sbiadire le foto plastificate con visi di ragazzi e soldati appese su muri nella piazza Maidan Nezalezhnosti e nei dintorni. Su bordi di carreggiate, da noi, abbiamo ritratti e mazzi di fiori in ricordo di vittime di incidenti stradali. A Kiev lo stesso esiste in scala più grande, in memoria di gruppi di manifestanti ammazzati sul posto da forze antisommossa e per altri che sono caduti combattendo nel Donbass. Le più antiche di queste foto risalgono al 2014. In termini storici, due minuti fa.
Il 2014 è stato l’anno nel quale un centinaio di dimostranti a Kiev vennero massacrati durante le proteste filoeuropee contro l’allora presidente Viktor Yanukovich, filorusso poi costretto alla fuga. Nel 2014 la Russia si è annessa la penisola ucraina della Crimea e ribelli legati a Mosca hanno cominciato a scontrarsi con le forze di Kiev nel Donbass, Ucraina orientale. Secondo le Nazioni Unite, questa ultima guerra ha causato fino al febbraio scorso 9.167 morti e 21.044 feriti. «Riteniamo le cifre attuali molto più grandi», ammetteva in marzo Fiona Frazer, responsabile della missione dell’Onu per sul rispetto dei diritti umani. Giovedì la commissione dell’Onu sulla Prevenzione della tortura ha interrotto una visita nel Paese: non le è stato permesso di visitare posti nei quali si sospetta vengano torturate persone «private della libertà» dai servizi di sicurezza.
Al sangue versato in guerra si sommano le perdite per l’economia. «L’Ucraina si regge grazie ai donatori stranieri», constata Roberto Poliak, dirigente dell’Unicredit a Kiev. L’anno scorso il potere di acquisto della grivna, la moneta locale, è precipitato. L’inflazione ha raggiunto il 41,8%, adesso sembra vicina all’undici. La crescita del prodotto interno lordo (Pil) è prevista sotto al 2%. E’ crescita su smottamenti: l’anno scorso il Pil è crollato del 9,7%, nel 2014 del 6,8%. Eppure non mancherebbero risorse, in condizioni di pace e con riforme di un sistema iperstatale datato.
Lo stipendio di un poliziotto equivale a 130-150 euro mensili. Tangenti e mazzette costituiscono altra zavorra per lo sviluppo. Il capo dell’Autorità nazionale anticorruzione Artem Sytnyk ammette che in 25 anni dall’indipendenza ottenuta con la fine dell’Unione sovietica «le regole di un’economia di mercato non sono state applicate, ogni settore della società è esposto a corruzione ».
In giugno l’Ue deve decidere se e come prorogare le sanzioni inflitte alla Russia a causa dell’annessione della Crimea e degli appoggi ai miliziani filorussi del Donbass. Non è facile conciliare un dovere morale – sostenere l’europeismo della parte occidentale dell’ex repubblica sovietica dell’Ucraina- e le nostre esigenze di convivenza distesa con la Russia di Vladimir Putin. Di certo anche così, come a Kiev, si vive in Europa nel 2016 stando fuori dell’Unione Europea.
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