Il male oscuro del Veneto Quelle tredici banche in crisi
MONTAGNANA (PADOVA) I davanzali hanno fiori alla tirolese, le chiese codici a barre perché i passanti possano rileggerne la storia medievale negli smartphone. Montagnana, cinquanta chilometri a sud-ovest di Padova, è un idillio ricco e civile. Solo che un paio di settimane fa lungo i portici del centro gli abitanti hanno trovato un cartello che è apparso subito come uno squarcio nel paesaggio. «Avviso alla clientela», era il titolo. La banca cooperativa fondata qui nel 1909, al cui capitale partecipa praticamente ogni cittadino adulto del borgo, non c’è più. Restano la targa di ottone e il palazzo della sede, curato ed elegante. Per il resto, ai correntisti sarebbe stato comunicato un nuovo numero di conto «a breve».Da qui non sono usciti trader con scatole di cartone in mano, come ai tempi del crash di Lehman. Sono usciti padri di famiglia un po’ smarriti, ma diretti alle solite destinazioni: gli incontri in parrocchia, le riunioni dei genitori in una scuola materna di una perfezione disumana.
La sostanza, per certi aspetti, non cambia. Con discrezione, un intervento della Banca d’Italia ha messo CrediVeneto in liquidazione coatta amministrativa dall’8 maggio dopo che le perdite sui crediti del 2015 avevano devastato il patrimonio. Acquisisce attività e passività Banca Sviluppo, il veicolo costituito a Roma dall’Istituto centrale del credito cooperativo per effettuare salvataggi senza aiuti di Stato e dunque senza punire creditori e depositanti. Quella che fino a due settimane fa era CrediVeneto, e aveva un bilancio da oltre un miliardo, non interrompe i rapporti con la clientela neanche per un giorno. Ma da oggi in un altro angolo d’Italia i piccoli risparmiatori sanguinano in silenzio, senza aver capito bene perché. A Montagnana abitano 3.700 famiglie e avevano comprato le azioni della banca 6.400 risparmiatori e 1.500 imprese. Lo hanno fatto a prezzi gonfiati. Spesso lo hanno fatto dopo che CrediVeneto ha offerto credito a condizioni agevolate a chi poi ne avesse comprato le azioni, in sostanza praticando le stesse ricapitalizzazioni posticce di cui la Popolare di Vicenza è il caso più celebre. Non il solo, specie da queste parti.
Perché il dilemma è esattamente questo: Montagnana è solo l’ultimo segno di un mistero. Il Veneto ha un reddito per abitante del 14% superiore alla media italiana, una disoccupazione vicina alla media tedesca e una crescita dell’export che nel 2015 ha battuto la Germania. Eppure sembra colpito da un virus che mina le banche con un’intensità senza paragoni. Ci sono almeno tredici istituti con storie diverse, tutte però segnate dai sintomi di un male oscuro che investe una delle aree più dinamiche d’Italia. Alla Popolare di Vicenza e a Veneto Banca sono stati imposti aumenti di capitale senza i quali sarebbe fallite. Il Banco Popolare di Verona copre talmente male i suoi prestiti inesigibili che questi, al netto delle riserve messe da parte per compensarli, sono in proporzione più alti di quelli grande malato Montepaschi; oggi Verona è obbligata a una fusione alla pari con la Popolare di Milano, più piccola, e prima dovrà rafforzarsi. Non mancano poi casi più piccoli, spesso nel credito cooperativo. Prima di CrediVeneto, dal 2012 la Banca d’Italia ha commissariato la banca di Monastier e del Sile per un anno e mezzo, quindi la Bcc Euganea nel 2013, la Banca del Veneziano e il Credito Trevigiano nel 2014. La Bcc di Marostica è un altro caso, Banca Padovana è stata salvata dalla Bcc di Roma in extremis, Banca Marca ha visto le dimissioni di parte del vertice dopo l’ultima ispezione e la Bcc Atestina è stata accorpata a una concorrente. Quanto a Antonveneta, resta alla radice della crisi di Mps.
È una densità di dissesti e perdite senza pari in Italia. E non è facile capire perché, ma alcuni indizi aiutano. La tempesta perfetta del Veneto ricorda quelle di altre economia dinamiche dell’euro, la Spagna o l’Irlanda. Con l’avvio della moneta crollano i tassi d’interesse e il credito alle imprese nella regione esplode fra il 1999 e il 2001 da 47 a 107 miliardi, a prezzi correnti: il Veneto pesa meno di un decimo dell’economia italiana eppure concentra più di un decimo dei prestiti descrivibili come «produttivi». Il problema è che non lo sono, non sempre. Mentre il credito alle imprese venete compie un balzo del 125% nei primi dodici anni dell’euro (sempre a prezzi correnti), l’economia cresce appena del 39%. Ogni euro di prestiti ai produttori genera un reddito sempre minore. È il sintomo di una bolla e della qualità insufficiente degli investimenti, di cui il Veneto è solo un emblema nel Paese. La regione più dinamica diventa per l’Italia ciò che la Spagna o l’Irlanda sono state nell’area euro, prima che fossero salvate. «La droga finanziaria ha gonfiato valutazioni e prestiti, che poi sono diventati crediti deteriorati per le banche» dice Roberto Brazzale, leader dell’omonima azienda alimentare con 150 milioni di fatturato. Il passo dopo sono state le frodi e la difficoltà dei regolatori nel fermarle, proprio come è successo con la Banca di Spagna e la Banca d’Irlanda. «Si è sviluppato un sistema di corruzione» dice Gianfranco Rigon, ex vicepresidente della Popolare Vicenza dimessosi in polemica molti anni fa. Il leader di un istituto dell’area vede lo stesso problema dal lato opposto: «Credere ai bilanci delle piccole imprese del Nord Est — osserva — è un atto di demenza».
A Montagnana tutto questo non aveva ancora turbato la vita della comunità, ma ora costruire una casa costa circa un terzo più del prezzo a cui è possibile venderla. Per il Veneto, la svolta riuscita dalla Spagna resta ancora lontana.
Federico Fubini
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