“Addio, me ne vado grazie per questo amore”

by FRANCESCO MERLO, la Repubblica | 21 Maggio 2016 9:01

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CHISSÀ come si divertirebbe Marco a guardare se stesso con il rosario in mano. Su letto damascato, nella cameretta della Mater Dei, con due crocifissi alle spalle e tante suorine in bianco che sembrano quelle di Manara e di Fellini, il corpo smisurato del gigante somiglia a una scultura di Cattelan. Mirella gli ha messo al collo la sciarpa bianca tibetana, gli hanno infilato i jeans e i calzettoni di lana senza scarpe.

GLI HANNO ANNODATO la cravatta rossa; un sostegno di plastica sotto il mento gli tiene chiusa la bocca: «mai aveva avuto le mani fredde» dice Mirella.
Il rosario tra le dita glielo ha messo Remy, la signora filippina che lo ha aiutato in casa per 30 anni, ed è impossibile non pensare a Sciascia, anche lui con il rosario sistemato lì, in bell’evidenza, dalla moglie cattolicissima. Sciascia fu sepolto così, da ateo credente.
Matteo Angioli, pur non avendo nulla contro i rosari, dopo qualche ora sorride a Remy ma lo prende e lo infila dentro la tasca della giacca blu di Pannella: c’è, ma non si vede. Al posto del rosario, Matteo sistema un pacchetto di sigari in modo però che si veda e non si veda: rosario e toscanelli sono come gli anellini e i fiorellini in certi quadri di Lorenzo Lotto che non basta la prima occhiata per capire. Anche Pannella morto ha le sue inesauribili altre dimensioni. La filippina Remy è radicale «come il signor Pannella » , ma è anche cattolica «come l’ amico del signor Pannella». Di chi parla? «Del Papa».
Qualche ora prima, in via della Panetteria, mi avevano fatto sentire la voce di Papa Francesco che al telefono diceva a Pannella, sbagliando l’accento: «Si faccia un sigàro». E poi: «Quelli li fumava pure mio nonno». La telefonata era lunghissima perché Pannella, con l’eloquenza in apnea, non riusciva a trattenersi: ingiustizie, carceri, amnistia, Africa. E si scusava: «Non vorrei attaccare un bottone al Papocchio». Bergoglio lo invitava ad avere coraggio, e parlava anche del coraggio della Bonino che definiva «la piemontesa» aggiungendo: «è la persona che meglio capisce l’Africa». Pannella si augurava che «Dio illumini Emma» e poi: «lei, Santità, di Dio se ne intende».
La telefonata, videoregistrata, è conservata nel prezioso iPhone di Umberto Gambini. Arrivato da Bruxelles dove lavora per il Parlamento europeo, Umberto si è fatto portare da un tassista, «che piangeva per la morte di Marco», appunto in via della Panetteria dove io ero piombato alle otto del mattino svegliando Matteo e Laura per parlare di Pannella.
E cominciamo dalla fine, da Laura che lo coccolava mentre lo sedavano e da Marco che diceva le ultime parole, quelle che di ogni morto tutti vorrebbero sapere «in cerca – pensava Sciascia – dell’essenza di un uomo, nel tentativo di ingabbiare la complessità di una storia, di una intera vita in una frase risolutiva». Laura racconta: «Mentre gli accarezzavo la testa e il viso e mentre l’anestesista gli infilava l’ago in vena, Marco diceva ‘grazie’ e poi:’amore, amore amore’». Ma conveniamo, con Laura e Matteo, che «non esistono ultima verba perché alla fine c’è solo lo stravolgimento che è quello dell’inizio, e la battuta d’uscita ha lo stesso non senso del vagito di ingresso». Era impaurito ? «Sapeva che non sarebbe tornato indietro da quella sedazione che pure a tutti i costi voleva perché il dolore non era più domabile con le pillole e con la morfina somministrate in casa. A un infermiere che gli diceva ‘dopo qualche giorno tornerà a casa’ Marco aveva soffiato il fumo del sigaro in faccia. E noi abbiamo capito».
Matteo e Laura aprono l’archivio dei ricordi: video, audio, lettere, messaggi e mille piccole cose di grande importanza come nello scrigno di Napoleone a Sant’Elena. Mi mostrano un video dove Pannella malato si affaccia alla finestra e parla con i gabbiani: «Ciao bello, ciao belli». Marco è di schiena. In primo piano c’è quel codino che, mi disse, «mi consente di non far diventare gialli i capelli », una civetteria certo, come la giacca a doppiopetto del sarto abruzzese e come la cravatta vintage floreale di Yves Gerard. Eppure Marco stava ormai malissimo. Una volta gli chiesi se la sua eleganza era vanità. Mi rispose: «È rispetto».
Dunque Marco parla con i gabbiani, li segue con gli occhi e li indica col braccio, uno per uno: «grazie, grazie, grazie dell’amore, quello conta; l’odio è per i poveri stronzi». E sembra la rivisitazione radicale di San Francesco, il Cantico dei Cantici che, a causa di «poveri stronzi», inverte la retorica e diventa goliardico.
C’è pure un audio straziante dove Marco quasi rantola: «me ne vado», «addio ». Matteo cerca di calmarlo: «Marco, vieni qua, dammi la mano». Ma lui insiste: «Vado via per sempre». E Matteo, piangendo: «Non vuoi stare con me?». «Sì. Ora e per sempre con te». Davvero c’è un momento in cui il mondo non esiste più per chi dal mondo se ne sta andando.
E poi frammenti politici, ritagli di gioia tra una sofferenza e l’altra, «il bagno, per esempio, – racconta Laura – era simpatica fatica: perché Pannella era grande e spiritoso. Lui rideva in piedi dentro la vasca. E uno lo teneva e l’altra lo lavava, e intanto il sapone scappava via … Insomma, eravamo un’allegra brigata. All’improvviso però ci stringevamo l’uno sull’altro a fisarmonica e allora diventavamo una famiglia».Ascolto infine una solenne e al tempo stesso sofferta dichiarazione d’adozione, poco prima della sedazione. E di nuovo l’audio comincia ridendo, ma continua piangendo. E, tra i singhiozzi, si distingue lo schiocco dei baci: «Tu sarai per le anagrafi di tutto il mondo l’ultimo dei primi Pannella … È ufficiale, i notai siamo tu e io. Perciò piango, ma con felicità ». E dunque: «ti amissimo», «e io di più». Davvero è un’abbuffata di promesse e corpi stretti, di troppa vita che non vuol finire.
Matteo si riconosce nel viaggio di Dante e Virgilio, cita i versi, ma a me pare più Geppetto e Pinocchio, una storia ariosissima di adozione, di paternità non fisica, fatta di esperienze e non di seme, paternità cercata e costruita dentro le azioni e le avventure radicali, non nell’acido desossiribonucleico. Dice Matteo: «Non mi curo di chi parla di omosessualità, e sono indifferente a chi in questi anni ha mormorato la parola ‘plagio’ ».
Niente sesso? «Ma no! È vero che non c’erano pudori, che abbiamo dormito insieme, che stavamo nudi e che ci toccavamo. Mai però i toccamenti erano sessuali. Amore sì. Lui diceva che la natura gli aveva dato un fratello minore. Poi, come hai sentito, voleva adottarmi». Laura conferma e racconta: «Mi ha accettato a furia di sguardi burberi e di sorrisi teneri, come si accetta la fidanzata di un figlio ». È vero che aspettate un bimbo? «È vero che lo vogliamo. Quando venne Vasco Rossi abbiamo scherzato perché mi chiamo Laura e vengo dal Nord come la Laura della sua canzone: ‘Laura aspetta un figlio per Natale / e tutto il resto adesso può aspettare’. Vasco disse: manca solo il figlio a Natale. E i giornali mi hanno vista gravida». A settembre si sposeranno a Buggiano, in provincia di Pistoia. «Marco voleva fare il testimone e fare con noi la lista degli invitati, poi ha capito che il suo tempo era finito e ha smesso di parlarne». C’è un testamento? «No». E l’eredità politica? «È nelle mani delle persone di fiducia, che mai sono stati burattini: Maurizio Turco, Rita Bernardini, Alessio Falconio…. So che non è facile parlarne adesso, ma Marco credeva molto nella battaglia per il Diritto alla Conoscenza …». Alla Mater Dei solo dottori, infermieri e suore hanno il diritto di conoscere Pannella, di visitare l’ultima cameretta non aperta al pubblico. C’è il cappellano, don Tonino Manca, che era corso a dargli la benedizione quando il suono cadenzato del respiro catarroso si era improvvisamente fermato e le dita erano diventate blu. Tra poco lo metteranno nella bara per esporlo alla Camera, al partito, in Piazza Navona, ma ora e qui vengono solo gli intimi, i medici, un’anziana signora che nessuno conosce, Marco Bellocchio che ha fretta perché deve partire per lavoro, Emma … Lo baciano, lo accarezzano, gli parlano.
Non voleva morire, «non voleva andarsene » mi dice Mirella, la ‘ragazza’ di Marco, la bella ‘moglie’dottoressa con la quale Marco si prendeva e si lasciava per evadere dalle galere ideologiche del matrimonio, per salvare l’amore dalla noia: tante risate e mai un ghigno, mille sorrisi e non un rancore. «Con lei io non convivo – diceva Marco- ma vivo con». E ancora: «La soffitta dove sto è di Mirella, io ci abito e lei paga tutto, anche le tasse». Mirella è solare, anche lei piange e ride come gli abitanti dei Tropici di De Gregori : «Ogni tanto faceva segno di spararsi in testa, ma non si lamentava mai – mi dice – e non ha mai parlato di funerali. Abbiamo deciso di seppellirlo a Teramo perché lì ci sono suo padre e sua madre e perché il Comune aveva donato i loculi anche per Marco, per sua sorella e per me. La sorella di Marco scelse di far disperdere le ceneri nella vigna. E anche io, pensandoci, preferirei la cremazione. Marco accettò i loculi senza dir nulla». E i funerali? «La sola cosa che ha scelto Marco è la musica: All Time Jazz Band. Suonerà Carlo Loffredo, che pure lui diventa vecchietto».
Mirella sta cercando una frase da incidere sul loculo. Scarta il francese che «nel cimitero di Teramo sarebbe snob». Pensa a “Spes contra Spem” che rimanda a Paolo di Tarso e fu il motto di Giorgio La Pira, ma poi le viene in mente il Bergson di Marco, l’idea che si può entrare e uscire da una vita in qualsiasi punto e ritrovarla sempre intera: mentre beve l’orina in tv, oppure malato a casa sua, quando era un grosso Mangiafuoco logorroico che faceva ostruzionismo in Parlamento; nel flusso di coscienza c’è anche lo scheletrico ragazzo imbavagliato, con il girocollo nero e il lunghissimo naso affilato … «È la frase che lui diceva sempre e che davvero lo riassume molto: Sciascia si chiedeva se la memoria ha un futuro, Panella rispondeva che ‘La durata è la forma delle cose’ ».
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