L’attacco allo Stato della mafia rurale che non accetta di perdere l’egemonia
Le valutazioni di investigatori, inquirenti e amministratori sembrano coincidere: l’attentato a Giuseppe Antoci è figlio di una mafia rurale e sanguinaria, antica ma emergente, decisa a far sentire la propria voce a colpi di lupara pur nella consapevolezza di ricavarne più svantaggi che profitti. Ed è un segnale allarmante, perché ci ricorda — se qualcuno l’avesse dimenticato — che nella terra di Cosa nostra si può ancora morire. La dinamica dei fatti si presta a letture non ancora univoche, ma è ben possibile che l’obiettivo dei sicari fosse di uccidere il presidente del Parco dei Nebrodi, e forse solo l’intervento (non previsto) della seconda auto di scorta ha evitato il peggio. Se questa analisi sarà confermata, significa che nella provincia di Messina la cosiddetta «terza mafia» (dei tortoriciani, che si aggiunge a quelle della città e di Barcellona Pozzo di Gotto) ha ripreso quota e centralità, e ha deciso di reagire in maniera diretta agli ostacoli frapposti solo ultimamente dallo Stato al lucroso affare dei finanziamenti europei su terreni dati in gestione da decenni sempre alle stesse famiglie: esponenti o prestanome degli «uomini d’onore» di Tortorici, per l’appunto, noti da tempo alle forze dell’ordine e non solo. Almeno un milione e mezzo di euro all’anno garantiti, che in tempi di ristrettezze economiche che toccano anche i mafiosi sono una cifra di tutto rispetto. Per la quale si può decidere di sparare e uccidere, visto che i soldi arrivano direttamente sui conti correnti, senza la necessità di ricorrere alle minacce che accompagnano le estorsioni (affare più rischioso e meno redditizio). L’intervento del presidente Antoci, insieme a quello del sindaco di Troina Fabio Venezia (anche lui costretto a vivere sotto scorta da qualche settimana) e altre autorità ha rotto questo meccanismo, con il beneplacito del Tar che ha respinto i ricorsi amministrativi. Di qui l’attaco frontale, che secondo il sindaco Venezia è preoccupante perché ciò che è emerso nella gestione del Parco dei Nebrodi «è solo la punta di un iceberg sotto il quale ci sono, molto probabilmente, interessi simili in tutta la Sicilia e in ampie zone del Meridione». Una situazione alla quale è giusto guardare con la massima attenzione. Non solo da parte di chi deve reprimere il crimine organizzato, ma anche della politica nazionale e dell’opinione pubblica. Per far desistere, a 24 anni dalla strage di Capaci, chi ancora pensa di imporre la sua legge contro quella dello Stato, a scariche di pallettoni.
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