Sì alle armi per il governo di Tripoli E l’Italia addestrerà le loro truppe

by Lorenzo Cremonesi, Corriere della Sera | 17 Maggio 2016 10:10

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VIENNA Armi, ancora armi alla Libia, che è un Paese già straripante di missili, mitra, bombe, munizioni di ogni tipo e calibro saccheggiati nel 2011 dagli arsenali del Colonnello Gheddafi e poi comunque importati dagli attori regionali interessati a difendere le milizie loro alleate. Che sia una buona idea è ancora tutto da provare. Chi assicura non cadranno ancora una volta nelle mani sbagliate? Non è chiaro. Ma certo ci credono gli Stati Uniti, l’Italia e molti dei Paesi occidentali che ora sostengono il nuovo governo di accordo nazionale, il cui premier Fayez al Serraj si è insediato a Tripoli tra infinite difficoltà dallo scorso 30 marzo.

A Vienna padroni di casa ieri sono stati il segretario di Stato Usa John Kerry e il ministro degli Esteri italiano Paolo Gentiloni. Per circa due ore assieme a Serraj hanno messo a punto gli ultimi dettagli del nuovo piano che vorrebbe porre fine al caos e rafforzare il nuovo governo di unità nazionale a Tripoli. Quindi l’annuncio: nessuno è disposto a inviare in modo stabile e continuato le proprie truppe in Libia, ma sono in via di definizione i meccanismi che permetteranno di sospendere o modificare le sanzioni Onu, in modo da poter sostenere militarmente il nuovo esecutivo. «Abbiamo bisogno del vostro aiuto per affrontare l’Isis. Per noi si tratta di una sfida vitale. Speriamo nella vostra assistenza nell’addestramento ed equipaggiamento delle nostre truppe», ha dichiarato ai giornalisti Serraj. «Nell’immediato futuro presenteremo la lista delle nostre richieste».

«Siamo pronti a rispondere positivamente alle richieste del legittimo governo libico. Combattere l’Isis è anche tra le priorità dei nostri interessi nazionali e lo faremmo in ogni caso», ha risposto Kerry. Molto simili i toni di Gentiloni, il quale ha ribadito che l’Italia sarà «attenta» ai bisogni espressi da Serraj. «Abbiamo detto che siamo pronti a rispondere a richieste del governo libico sull’addestramento delle loro forze — ha confermato il titolare della Farnesina —. Se ce lo chiederanno siamo pronti a collaborare. Sono i libici che devono essere in prima linea per combattere il terrorismo e i trafficanti di esseri umani. Loro non vogliono interventi stranieri, vogliono assumersi questa responsabilità». A questo fine Italia, Stati Uniti, larga parte del Consiglio di sicurezza i 15 Paesi che partecipano ai colloqui si muoveranno per facilitare una soluzione Onu che sblocchi l’embargo e garantisca gli aiuti militari necessari. In questo senso va anche l’intenzione di avviare il dialogo con il generale Khalifa Haftar, uomo forte del governo di Tobruk, che grazie all’aiuto di Egitto ed Emirati Arabi Uniti negli ultimi tempi sta rilanciando in modo indipendente l’offensiva contro l’Isis. Se le milizie di Misurata infatti stanno perdendo terreno, da Bengasi per contro i miliziani sono avanzati alcune decine di chilometri verso Sirte. «Haftar potrebbe rivelarsi un alleato importante nella guerra contro il terrorismo. Ma occorre che prima riconosca l’autorità del governo di Serraj», dice Gentiloni. L’Italia dunque non si tira indietro. Bensì intende rilanciare il governo Serraj. Se la situazione dovesse migliorare sul terreno, non è neppure esclusa una riapertura delle sedi diplomatiche europee a Tripoli nel medio periodo. «Noi, come del resto americani, tedeschi inglesi o francesi non intendiamo inviare le nostre truppe a garantire le eventuali istituzioni Onu che dovessero aprire nel Paese», ha chiarito Gentiloni. «Stiamo però valutando in assonanza con i maggiori partner europei di riaprire la nostra ambasciata e i nostri soldati ci serviranno per garantirne la sicurezza». Quando? «Dipende dalla situazione sul terreno. Potrebbe accadere già nei prossimi mesi».

Lorenzo Cremonesi

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