Le vite bruciate alla Thyssen uno scandalo della democrazia

by EZIO MAURO, la Repubblica | 14 Maggio 2016 11:30

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COME se fosse un monumento alla memoria dei morti sul lavoro, il “reparto” della Thyssen al cimitero di Torino accoglie le bare tutte insieme, in fila, quasi una catena di montaggio postuma. Il Comune ha voluto tracciare attorno una striscia azzurra per contrassegnare quei morti, separarli dalle altre sepolture. In realtà li distingue l’età, scritta sul marmo accanto ai nomi dei morti in mezzo a tombe di nati nel 1923, 1919, 1912. Sono tutti giovani, gli operai bruciati vivi: 36 anni per Antonio Schiavone detto “Ragno”, 43 per Angelo Laurino, 32 per Roberto Scola, 26 per Rosario Rodinò morto dopo 13 giorni di agonia con solo il cinque per cento del corpo non mangiato dal fuoco, 26 anche per Giuseppe Demasi, l’ultimo a morire dopo 4 interventi chirurgici, tre giorni soltanto prima che arrivasse dalla coltura del Niguarda a Milano la pelle nuova per il trapianto.
LI HANNO messi insieme al camposanto perché non hanno una tomba di famiglia, come gli altri due, Rocco Marzo e Bruno Santino. Ma anche perché il cimitero è l’unico luogo dove si potrà ricordare la tragedia della Thyssen, se qualcuno vorrà farlo come i bambini che portano i fiori, qualche biglietto da infilare tra le pietre, disegni di scuola. La fabbrica infatti non c’è più. Doveva chiudere poco dopo la tragedia, era già tutto predisposto per spostare le lavorazioni più importanti a Terni. Poi è stata sequestrata per il rogo, in questo lungo calvario giudiziario che è finito ieri, dopo essere durato nove anni. Adesso è uno scheletro industriale come tanti altri a Torino, testimonianza di quella che è stata la capitale del mondo della produzione e anche della civiltà del lavoro, e che ha poi dovuto cambiar pelle attraverso le trasformazioni forzate della globalizzazione e della crisi. La città ce l’ha fatta, reinventandosi. Le fabbriche – quelle che sembrano aver dato forma alla città stessa, con gli stessi attrezzi delle officine – restano vuote e silenziose mentre spariscono gli operai che avevano costruito attraverso il lavoro, e proprio a Torino, i meccanismi politici e sindacali che ancora sopravvivono, sotto forme diverse.
Chi alzava gli occhi il giorno di uno dei tre funerali della Thyssen vedeva la vecchia ciminiera trasformata in campanile della chiesa operaia del Sacro Volto, e tutt’attorno i ricordi dei metalmeccanici di una volta, che indicavano con le mani il posto: proprio lì c’erano i 13 mila delle Ferriere Fiat che poi hanno venduto gli impianti all’Iri per la Finsider, che infine ha ceduto i capannoni alla Thyssen vent’anni fa. E la Thyssen, prima dell’incidente, ha deciso di chiudere, perché a Torino l’acciaio non serve più, e si parla di una lavorazione speciale che sopravviveva proprio solo alla Thyssen, inox 18/10, diciotto di cromo e dieci di nichel. La trasformazione dei mercati, dell’industria, della produzione ha cambiato anche il destino dell’acciaio e dei suoi produttori specializzati, che proprio per questo guadagnavano 300, anche 400 euro più di un operaio Fiat del quinto livello, però dovevano lavorare in squadre che si alternavano nei turni, perché l’acciaio non si può fermare mai, bisogna esserci 24 ore su 24, sette giorni su sette, festivi compresi.
Erano rimasti in 180, chi era riuscito a trovare un altro posto se n’era già andato. Gli operai dicono che bisogna pensare bene e capire cos’è una fabbrica in disarmo: manutenzione bassa e saltuaria, tanto tutto sta per finire, controlli ridotti, e anche l’autosorveglianza che un lavoratore impiega normalmente sapendo che l’acciaio è una bestia pericolosa, anche quella si riduce, inevitabilmente. Tutto diventa provvisorio, precario, ballerino. Ed ecco quel mercoledì sera, il 5 dicembre, quando l’acciaio passa alla linea tecnico-chimica numero 5, che deve temprarlo e ripulirlo dalle impurità per poi cederlo alla lavorazione. Si dice linea, ma è un forno lungo 50 metri, alto quasi come due piani, a 1180 gradi, che fa correre al suo interno l’acciaio a 40 metri al minuto di media, per poi portarlo nella vasca degli acidi che fanno cadere l’ossido della cottura.
Gli operai sono cinque, come previsto dal turno montante, solo che poiché c’erano due assenze si fermano di notte a fare gli straordinari Antonio Boccuzzi e Antonio Schiavone, che hanno già lavorato per l’intero loro turno normale, dalle 14 alle 22: cose che capitano quando la fabbrica è in ristrutturazione, tutto è saltato, ma bisogna fare il lavoro comunque. I cinque come vuole la procedura stanno nel “pulpito”, una stanzetta- schermo col vetro protettivo, dove ci sono i comandi. Quando mancano pochi minuti all’una il nastro che arriva a bassa velocità sbanda all’improvviso, sbatte nella carpenteria, le scintille finiscono sulla carta, l’olio le incendia. E’ già successo, gli operai sanno come si fa, escono dal pulpito, prendono gli estintori, ma dicono di averli trovati scarichi. Proprio mentre sono fuori, vicini alle fiamme, un flessibile pieno d’olio esplode per il calore, passa sul fuoco che rilancia le fiamme ingigantendole a dismisura, le sputa come un’arma infernale che spara davanti a sé in orizzontale. Quel fuoco non lambisce gli uomini, li divora in un attimo. Si salva solo Boccuzzi che è dietro un muletto elevatore, sente una vampata che gli brucia la fronte, ma è al riparo. Gli altri barcollano mangiati vivi nella carne, nei muscoli, nel viso, senza più occhi. Rocco Marzo si muove verso le voci che sente confusamente, mentre il suo corpo è bruciato: «Avvisate mia moglie, ditele che mi avete visto, che sto in piedi, non fatela preoccupare». Schiavone sta ancora urlando nel fuoco, Bruno Santino e Giuseppe Demasi costeggiano la linea 4 senza poter vedere più niente, due figure arroventate, con la pelle che non c’è più, hanno paura a toccarli, li scortano fuori col suono delle voci. Restano a terra Rosario Rodinò, Angelo Laurino e Roberto Scola, che urla come può: «Ho due figli piccoli, aiutatemi, non potete farmi morire ».
Un operaio del reparto finitura che è accorso alla 5, Giovanni Pignalosa, controlla che non ci sia più nessuno tra le fiamme e quando il fumo acido nei polmoni diventa insopportabile stacca finalmente la tensione a tutta la linea, ferma il flusso degli acidi, spegne l’elettricità. A Torino la Thyssen si ferma così per sempre, mentre suonano i telefoni nelle case dei sette operai bruciati nel rogo della fabbrica. Rispondono le mogli, e da quel momento diventano le vedove.
Torino, raccontano quelli della Thyssen che adesso si sono dispersi dovunque nelle aziende metalmeccaniche della cintura, ha vissuto certo con dolore e con pietà la tragedia, ci mancherebbe: ma come un “incidente”. Con compassione, più che con condivisione. Non c’è più una “classe” che si senta colpita nel suo insieme e direttamente con la morte dei sette operai bruciati, non ci sono quasi più gli operai, tanto che al cimitero hanno mezzo pacchetti di sigarette come segno distintivo dei ragazzi che lavorano in fabbrica, perché sono rimasti ormai quasi i soli a fumare tra quelli della loro età. I loculi per gli operai della Thyssen, le sigarette per contrassegnarli con un marchio d’identità separata, l’operaio (e chi altro?) Ciro Argentino che al primo funerale strappa la corona di fiori mandata in chiesa dalla Thyssen, mentre i dirigenti dell’azienda devono entrare e uscire dalla parrocchia passando dalla sacrestia. Quasi un rito separato. E invece basta guardarsi intorno, in quei giorni, per capire che è un funerale alla città che fu, alla sua vecchia anima operaia che era sopravvissuta fin qui, appena oltre il secolo del lavoro, che a Torino è finito nelle fiamme. Non è un “incidente”, al di là dell’esito giudiziario, dell’attesa disarmata di giustizia da parte delle famiglie, della sentenza finalmente definitiva che fissa le responsabilità. Quel che è accaduto riguarda tutti, che sia avvenuto a Torino lo rende ancor più emblematico, ed ha un nome solo, che tra i banchi del Sacro Volto qualcuno tra i più vecchi sussurrava a bassa voce prima di mettersi in fila per accompagnare i sette al cimitero: uno scandalo della democrazia.
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