by Emanuele Giordana, il manifesto | 1 Maggio 2016 18:45
Fu un “errore di procedura”, un errore “tecnico e umano” il bombardamento che nella notte fra il 2 e il 3 ottobre del 2015 prese ripetutamente di mira l’ospedale di Medici senza frontiere a Kunduz in Afghanistan. Un raid aereo in cui furono uccise 42 persone e altre decine furono ferite. E’ questa la conclusione presentata venerdi dal generale americano Joseph Votel in una conferenza stampa in cui sono stati resi noti i risultati di un rapporto di 3mila pagine con cui il Pentagono ritiene di aver scritto la parola fine sulla vicenda.
La reazione di Msf, che si riserva nuovi commenti alla fine di un esame approfondito del dossier, non si è fatta attendere: l’organizzazione umanitaria ritiene infatti che molte domande siano rimaste senza risposta e continua a chiedere un’indagine indipendente che stabilisca nettamente le responsabilità e soprattutto il peso di una delle pagine più buie della storia recente del conflitto afgano.
Pazienti e membri dello staff di Msf (14) furono dunque vittime di un errore perché l’equipaggio del bombardiere “non sapeva” che stava colpendo un nosocomio ma era invece convinto di stare sbaragliando un covo di talebani situato a 400 metri dall’ospedale. L’azione all’origine della strage non fu pertanto “intenzionale” anche se non è chiaro come mai l’equipaggio non abbia avuto accesso alla lista degli edifici in città che non andavano colpiti (il rapporto fa riferimento a problemi di comunicazione) tra cui era stato da tempo segnalato il centro medico di Msf a Kunduz. E’ molto chiaro invece come i militari abbiano deciso di non procedere penalmente ma solo amministrativamente dal momento che, ha spiegato Votel, l’accusa di crimine di guerra si può applicare solo in presenza di atti deliberati.
Sedici membri dello staff militare e un ufficiale con funzioni di comando sono dunque stati sottoposti a misure disciplinari e in particolare a punizioni che includono la sospensione o la rimozione da posizioni di comando, lettere di monito e attività obbligatorie di training o consultazioni medico-psicologiche. Per cinque fra questi c’è anche l’espulsione dal teatro. Un buffetto sulla guancia insomma e magari un freno alla carriera, non certo un’accusa che li possa spedire davanti a una corte marziale: una risposta che Msf giudica sproporzionata rispetto alla distruzione di una struttura medica protetta, alla morte di 42 persone, al ferimento di decine di altre e alla totale perdita di servizi medici vitali per la popolazione.
Ma non sono certo le pene, più o meno dure, a preoccupare Msf, cui la Difesa statunitense intende pagare, con i risarcimenti ai parenti delle vittime, 5,7 milioni di dollari per ricostruire l’ospedale ridotto a un cumulo di macerie: secondo l’organizzazione umanitaria, quanto affermato dal vertice militare americano “equivale all’ammissione di un’operazione non controllata in un’area urbana densamente popolata, durante la quale le forze statunitensi hanno disatteso le regole di base della guerra” ha detto Meinie Nicolai, presidente di Msf, secondo cui “non si comprende perché, nelle circostanze descritte dagli Stati Uniti, l’attacco non sia stato annullato”. “Il discrimine che può rendere questo incidente mortale una grave violazione del diritto internazionale umanitario non è la sua intenzionalità” aggiunge Nicolai, perché in guerra, si tratti di Afghanistan o di Siria, “i gruppi armati non possono eludere le proprie responsabilità sul campo semplicemente negando l’intenzionalità di un attacco contro strutture protette come un ospedale.” Il Pentagono non la pensa così.
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