Uva, assolti carabinieri e poliziotti

by SANDRO DE RICCARDIS, la Repubblica | 16 Aprile 2016 10:26

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Non sono bastati otto anni di indagine, due processi e l’ostinazione di una famiglia a far luce sulla morte di Giuseppe Uva. Non sono bastati a spiegare perché un uomo entrato vivo in caserma, poco dopo le 3 di notte, il 14 giugno 2008, è stato trattenuto per quasi tre ore — senza verbale di fermo o d’arresto — da due carabinieri e sei poliziotti, per poi finire in ospedale alle 6 di mattina, e lì morire.

Dopo due anni di processo, la Corte d’assise di Varese ha assolto (con formula piena) gli otto imputati delle forze dell’ordine accusati di omicidio preterintenzionale, sequestro e abuso di autorità per la morte dell’operaio, 43 anni, che quella sera girava ubriaco in centro a Varese col suo amico Alberto Biggioggero, unico testimone in caserma.

«Vergogna! Maledetti!», hanno urlato subito dopo la sentenza i familiari. A chiedere l’assoluzione, è stato il procuratore capo, Daniela Borgonovo, che aveva gestito l’indagine dopo che il pm Agostino Abate — poi trasferito a Como dal Csm — aveva per due volte chiesto l’archiviazione del caso e per due volte un gip l’aveva respinta. Il procuratore ha ammesso nella sua requisitoria le «gravi lacune dell’indagine», per concludere comunque che non vi sono elementi a sostegno della tesi del pestaggio in caserma, sostenuta da sempre dalla famiglia Uva. Biggioggero, in caserma con Uva, ricorda «un via vai di carabinieri e poliziotti, mentre udivo le urla di Pino che echeggiavano assieme a colpi dal rumore sordo ». Dichiarazioni ritenute inattendibili dal pm, che nota come il testimone si sia più volte contraddetto. Ma Biggioggero, per oltre cinque anni non è stato convocato da nessun investigatore fino al 26 novembre 2013, quando Abate lo interroga — ha scritto il gip respingendo una delle richieste di archiviazione — «con ostilità», «ridotto a relitto improduttivo».

È stato invece un altro giudice, Orazio Muscato — che aveva assolto, nel primo processo, il medico del pronto soccorso di Varese, dove Uva era stato trasportato — a chiedere di indagare sulle ore in caserma. Sono sconosciute, aveva scritto nella motivazione, «le ragioni per le quali Uva, nei cui confronti non risulta essere stato redatto un verbale d’arresto o fermo, è stato prelevato e portato in caserma», come ignoti sono «i fatti nella stazione dei carabinieri e al cui esito Uva, che mai aveva avuto problemi psichiatrici, verrà ritenuto necessitare di un Tso».

Punti oscuri che il nuovo processo non ha risolto. Perché quella notte confluiscono in caserma una gazzella e tre volanti, lasciando tutta Varese senza pattuglie? Perché l’arrivo dell’ambulanza viene ritardato se i militari dicono che Uva era «in continuo stato di agitazione»? «Il processo è stato condizionato da un’indagine condotta in maniera pedestre, da Abate, e si è concluso com’era fatale che si concludesse», accusa il senatore Luigi Manconi, presidente di “A buon diritto”. I legali della famiglia Uva annunciano ricorso. «Siamo curiosi di leggere le motivazioni — dice l’avvocato Fabio Ambrosetti -. Il giudice in sentenza riconosce che gli imputati portano a termine un sequestro, ma li assolve dicendo che non hanno commesso un reato».

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