Sulla scena i migranti in gabbia «Diseguaglianze mai così attuali»
Questa non è un’Opera per vecchi. Aveva 30 anni Bertolt Brecht quando la scrisse, 28 Kurt Weill che ne compose la musica, 30 Lotte Lenya, fulva Jenny dei Pirati alla «prima» di Berlino del 1928, regia di Erich Engel, anni 37. E 33 anni aveva Giorgio Strehler nel ‘56, quando la portò al Piccolo di Milano, Tino Carraro, Mario Carotenuto, Milly in scena, Brecht in platea. E di nuovo Strehler la riprese nel ’72 con nuovo cast, Domenico Modugno, Gianni Agus, Milva, Giulia Lazzarini.
Adesso, a sessant’anni dallo storico debutto, a riportare al Piccolo L’opera da tre soldi è Damiano Michieletto, che con i suoi 40 anni si ritrova a essere il decano di tanta e tale compagnia di giovani. La sua nuova edizione, da domani allo Strehler, vedrà impegnati venti attori tra cui Marco Foschi (Mackie Messer), Peppe Servillo (Peachum), Rossy De Palma (Jenny), più l’orchestra Verdi diretta da Giuseppe Grazioli. «Quest’Opera è uno strano ibrido — sostiene Michieletto —. Non è lirica, non è musical, non è prosa. Eppure tutti recitano, cantano, ballano. Brecht aveva scritto: “È un pezzo con musica”. Prendo per buona la sua definizione».
Naturalmente da allora tanto tempo è passato. «Il mondo è cambiato e anche noi — ricorda il regista, noto per tante sue controverse letture liriche —. Ma come accade per i grandi testi l’Opera non smette di parlarci del nostro presente. Oggi più che mai». Perché quella storia ispirata alla settecentesca «Beggars’ Opera» di John Gay, epopea grottesca e feroce di straccioni e ricconi, malavitosi e prostitute, guardie e ladri, tutti insieme delinquenzialmente, ai nostri occhi è vita vissuta.
«Il sottoproletariato che Brecht tanto disprezzava e che pareva destinato a scomparire con la rivoluzione industriale, è la nostra realtà. Il divario tra ricchi e poveri, tra Nord e Sud del pianeta, si è fatto abisso. La miseria dei tanti alimenta l’opulenza dei pochi, la diseguaglianza si è fatta sistema e il sistema, per tener fuori chi non ne fa parte, erige i muri…».
Una marea di diseredati che Michieletto farà comparire in scena come migranti, in mutande e giubbetto arancione di salvataggio, ammassati dietro una gabbia dalle cui sbarre protendono invano le braccia verso la ricca tavola traboccante di cibo che sta fuori. Mensa opulenta di un obeso gastroforo, che si ingozza solitario e impudico. La metafora è palese. «Il monito di Brecht, chi ha fame si ribellerà, dovrebbe essere il nostro allarme quotidiano. Non c’è barriera che tenga capace di contenere tanta urgenza e sofferenza».
Teatro-denuncia, epico e straniante, come voleva Brecht. «I due caratteri principali, Mackie Messer e Peachum, sono due facce della stessa medaglia. Il primo esponente di una categoria di farabutti artigianali in via di estinzione, destinata a venire assorbita dagli imprenditori dello sfruttamento modello Peachum, “l’amico del mendicante”, antesignano di una finanza criminale planetaria le cui malefatte affiorano di tanto in tanto e subito vengono insabbiate».
Pescecani di diverse nature, uno con il coltello sotto il braccio, l’altro che con i coltelli traffica, ci fa i soldi, arma le mani altrui. A finire sotto processo e rischiare la forca sarà naturalmente Mackie, spaccone, cialtrone, esibizionista, amante di quella «bella vita» che dà il titolo alla sua ballata: «La bella vita è quella che mi va/ con donne, soldi e amore a volontà/ La vita è bella quanti più ce n’è/ stai sempre libero, stai come un re». «Filosofia molto diffusa. Mackie mi fa pensare a Felice Maniero, il boss della mafia del Brenta, uno che sembra sempre pronto a sbarcare in tv», dice il regista.
Tra i colpi di scena del processo a Mackie, vero motore drammaturgico di questa lettura, anche il suo interrogativo, provocatorio solo in apparenza: è più immorale rapinare una banca o fondarla? «Alla fine ad accumunare tutti è il cinismo — conclude Michieletto —. Alla fine ha ragione Mackie, il denaro compra tutti». Perché queste sono le regole del gioco: «Apprendete la morale, gente piena di onestà/ A ‘sto mondo nulla vale per chi grana non ne ha/ Siamo giunti al lieto fine colmi di felicità/ Se ci sono le monetine, sempre lieto il fin sarà».
Giuseppina Manin
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